Larissa Iapichino: “Non ho ancora fatto il salto perfetto. Dopo le Olimpiadi mi sono guardata dentro”
Nuova puntata di OA Focus con Alice Liverani ed Enrico Spada alla conduzione: sul canale YouTube di OA Sport la protagonista è Larissa Iapichino, che tra le mille cose già accadute nella sua carriera è da poche settimane la seconda italiana capace di saltare oltre 7 metri dopo sua madre, Fiona May. Sono tante le considerazioni che raccoglie e di cui viene qui fornito un estratto.
Qual è l’inizio della carriera di Larissa? “Non è una storia scontata. Io ho cominciato tardi. A tredici anni, ero all’ultimo mese di secondo anno categoria Ragazze. Ho fatto giusto le ultime due gare a disposizione, poi sono passato in categoria Cadetti. Io ho fatto per una vita ginnastica artistica, è stato un primo amore, una passione immensa che a malincuore ho deciso di mollare perché ho ritenuto che non fosse più la mia strada o il mio ambiente. Mi sono avvicinata all’atletica un po’ per caso, ci sono arrivata quasi per esclusione tra vari sport, non avevo l’obiettivo di diventare una sportiva, volevo solo continuare a muovermi appena dopo la scuola. Un giorno mi sono presentata al campo di Calenzano e ho provato. In quell’ora e mezza in cui ho provato di tutto mi sono stupita di quanto fosse passata così velocemente. Mi sembrava fosse durato cinque minuti. Da lì ho iniziato, ma come ostacolista. Nei mie piani volevo diventare una quattrocentista ad ostacoli. Il caso ha voluto che iniziassi a saltare in lungo perché non ero molto portata, perché c’erano varie componenti. Il salto in lungo somiglia un po’ al volteggio della ginnastica, però il gesto è diverso, io non capivo come correre e saltare con una sola gamba senza avere aiuto di una pedana, senza fare due stacchi. Nella mia testa non sapevo come venirne fuori. Con le prove multiple l’ho provato e riprovato perché i miei allenatori volevano che facessi il pentathlon. Quindi almeno due volte l’anno quella gara di salto in lungo la dovevo fare. Piano piano sono migliorata“.
Inevitabile che qualche ricordo arrivi dei primi anni: “Io ho vissuto l’exploit quando ero più piccolina. Ho capito che serve organicità e stabilità. Non sto dal punto di vista tecnico e fisico ma anche mentale. Io a 18 anni mi sono ritrovata in un mondo che non era neanche mio. Ero in difficoltà, non ero pronta. Avevo altre priorità. Quando ho fatto il 6.91, la mia priorità era fare la Maturità, non fare le Olimpiadi o entrare a far parte delle prime del mondo di specialità. Tutti gli occhi erano puntati addosso su di me. Non ero pronta, ma non c’è niente di male. La crescita deve essere graduale e commisurata all’età biologica mentale di una persona. Ci deve anche essere tanta esperienza dietro per raggiungere certi ambienti e un determinato livello. Ho dovuto affrontare quindi una sorta di seconda parte della mia carriera, quella che io chiamo post maturità. All’inizio dovevo capire dove fosse, cosa volesse dire diventare un’atleta a tempo pieno e far sì che questa diventasse la mia vita la mia priorità e il mio lavoro. Chiaramente con tutto ciò che concerne essere una giovane di talento, quindi avere delle aspettative. E’ un’ambiente diverso rispetto all’atletica giovanile. Io credo e consiglio di accettare la crescita a spizzichi e bocconi. Cercare di mettere un tassello alla volta e non andare a cercare subito l’exploit. Bisogna fidarsi del processo. Un passo alla volta si arriva lontano“.
E poi si viene al capitolo di Madrid, con la vittoria in Coppa Europa all’ultimo salto: “Non è finita finché non è finita, questo è il mio motto. Ogni salto è prezioso. Finché non hai zero chance non è finita e può succedere di tutto. Non dico che mi sento a mio agio nel fare questo tipo di gare, ma ho costruito una fiducia in me stessa ed una confidenza nello sfruttare qualsiasi tipo di tentativo. Poi certo, fare tutto al primo sarebbe meglio, si soffre meno. Ma non sono mai stata preoccupata in quella gara, chiaro che mi chiedevo cosa stesse succedendo. Ma ero tranquilla e serena, sapevo di averlo. Si trattava solo di fare scattare quel pulsanti nella tua testa. Poi chiaro che un po’ di ‘fattore C’ serve, perché un salto può essere nullo anche di un millimetro, bisogna essere anche fortunati perché ci sono tante variabili. Bisogna essere bravi a risparmiare energie, che è fondamentale, specie in gare all’ultimo grido come quelle che faccio io è importante arrivare con il serbatoio pieno, con una buona quantità di energie, altrimenti è impossibile tirare fuori il miglior salto. Una mia capacità è quella di accendermi e spegnermi quando serve. Quando inizio ad attivarmi fisicamente, si attiva anche la componente mentale che mi porta ad avere un’adrenalina molto forte. Ma quando finisci di saltare è importante spegnerla per conservare le energie. Ognuno deve trovare il modo di vestire le sue energie e di distribuirle in maniera intelligente. Poi ci sono persone che sono tutte nervi e riescono a rimanere concentrati tutto il tempo, io non ce la farai“.
Domanda delle domande: esiste il salto perfetto? “Sì e no, è un’idea che deve esistere nell’idea di un saltatore. Ma sono tante componenti difficili da mettere insieme. Si tratta della rincorsa, della tavoletta, dello stacco, della velocità di entrata perfetta ma con uno stacco che non ti rallenta. E’ difficile. Nei miei miglior salti non sono mai passata precisa al segno. Io ancora il salto perfetto non l’ha fatto. Esiste nel nostro immaginario può esistere anche concretamente, ma è difficilissimo farlo. Quando succede, c’è la magia. Poi è tutta una questione di sensazione“.
Larissa Iapichino secondo il proprio sentire, come idea d’atleta: “Io per definizione sono una individualista, mai stata brava negli sport di squadra. Mi dava fastidio quando magari si perdeva per un errore mio, si parla del torneo delle elementari ma vabbè. Ho sempre preferito fare per conto mio, se faccio bene o male, pago solo io le conseguenze. La Coppa Europa però ti fa entrare in una dimensione diversa. La maglia azzurra la senti di più, l’attaccamento alla maglia si amplifica, fai parte di qualcosa di più grande, è molto diverso rispetto a quando concorri da sola. Il gruppo è tra l’altro molto coeso, forse la squadre è tra le più unite a livello mondiale. Siamo tutti molto affiatati, vicini l’uno con l’altro, anche durante le competizioni individuali. Si crea un’atmosfera magica, che ti porta a mettere il cuore oltre l’ostacolo ed oltre la difficoltà. Quest’anno è stato bellissimo: ho gioito, sofferto perché le mie compagne mi hanno fatto soffrire, vedi l’infortunio di Lorenzo Patta, siamo stati male per lui. Ho gioito per i personali, quando hanno regalato punti importanti. Quando sono scesa io sapevo di avere una patata bollente, la Germania era la nostra avversaria e la mia diretta era proprio tedesca. Mi è toccato marcarla stretta, non si poteva sbagliare. E’ stato bello, c’è stato un fuoco che mi ha portato a lottare fino all’ultimo. I mei compagni mi hanno sostenuto, c’è l’immagine bellissima di Elisa Molinarolo che esplode quando viene annunciato il mio risultato. Questa credo sia stata la chiave: essere uniti, entrare in pedana o scendere in pista con il compagno. Io ho fatto la stessa cosa con loro, loro lo hanno fatto con me. Condividere una vittoria in questo modo è molto bello. Non ne siamo abituati, ma ci riporta a quel senso che ci hanno portato a fare questo sport. Quando si è piccoli i CDS (Campionati di Società) sono la cosa più divertente e ci stimola a continuare. Questa Coppa Europa ci ha portato indietro, a quando eravamo ragazzini. Ci ha ricordato quello che ci ha spinto a diventare quello che siamo adesso e quanto è importante divertirsi anche adesso che è diventato un lavoro“.
Il segreto della programmazione: “Io seguo uno schema preciso per le gare, cerco di distanziarle almeno ogni due settimane. Il tempo che mi serve per riprendermi da tutti i punti di vista, anche perché ho tanto da spendere dal punto di vista anche a livello nervoso. Da qui a Tokyo avrò due tappe della Diamond League, il Campionato Italiano. E poi eventualmente la finale di Diamond League. Poi i Mondiali, il fatidico obiettivo della stagione quest’anno un po’ più in ritardo a livello di calendario“.
E se fosse arrivato tutto qualche anno prima? “Anche nascendo prima non mi sarebbe andata meglio. Il lungo è sempre stato competitivo ed è il suo bello. Mi piace il confronto con le altre, spero sempre ci sia una gara accesa. Le cose facili non mi piacciono molto. Malaika (Mihambo, ndr) è un’atleta molto veloce. Parlano i suoi risultati ed i suoi dati, la velocità è il suo più grande pregio e punto di forza. Chiaro che qualche volta la rincorsa non le torna perché pasticcia, ma quando becca il salto, non salta poco. Lei è quella da temere di più dal punto di vista strategico perché non sai cosa può uscire dal cilindro. Tara (Davis-Woodhall, ndr) è invece solida tecnicamente, incarna più di tutte il salto il lungo come gesto tecnico, è pulito e perfetto. E’ molto rapida e questo la porta a sapersi aggiustare e ad avere una elasticità mentale nell’aggiustarsi la rincorsa. Il suo punto di forza, oltre la velocità, è lo stacco, stacca tantissimo e riesce a proiettarsi in orizzontale meglio di tutte. Ha lo stacco e la fase di volo migliori. Cosa fare per batterle? Saltare più di loro. Io qualcosa di simile ce l’ho, ma sono anche estremamente diversa. Strategicamente non si può fare altro se non mettere in campo il miglior salto e vedere come va. Il salto è anche tanto mentale, dipende anche come prendi certe dinamiche. Bisogna guardare tanto la tipologia di gara e cosa si dà durante tutta la gara. Ma è bello avere una battaglia ogni volta che ci incontriamo“.
L’importanza delle Olimpiadi, però, non è solo quella della rassegna a cinque cerchi in quanto tale: “Io ringrazio l’esperienza olimpica. Alla fine è stato, sembrava una cosa andata male, ma è stata la chiave di volta per quest’anno, ho affrontato tutto in maniera diversa, è stata una lezione preziosa. Quando il bagaglio è più pesante si riesce ad essere più lucidi e migliorare se stessi. Da Parigi ho iniziato a guardarmi dentro, a lavorare con il mio psicologo Mauro Gatti, abbiamo iniziato un percorso che sta dando i suoi frutti anche se ho tanto molto da dare. Io fuori dal campo sono maturata come donna, credo sia dato dall’insieme di esperienze. Dall’esperienze si impara sempre qualcosa. Prima delle Olimpiadi non mi sono qualificata nel 2022 in finale. L’ho presa alla stessa maniera, la stagione dopo sono esplosa nuovamente, ho cominciato ad essere stabilmente tra le prime, a vincere le prime gare importanti, è stato un punto di svolta. Ce ne saranno tanti altri. Ma li approccerò diversamente, penserò a disperarmi bene ed accettare con più serenità la situazione in cui mi trovo. Sono grata di aver fatto questa esperienza. Parliamoci chiaro: abbiamo fatto le Olimpiadi, quando avevo 14 anni stavo davanti alla tv e cercavo di inventare un esercizio al corpo libero vedendo le gare. Arrivare quarti brucia, ma ti fa capire che dopo le medaglie ci sei tu. Sei ad un passo da loro, non è un brutto risultato“.
Quale persona c’è lontano dalle sfide dell’agonismo: “Larissa fuori dal campo è una ragazza che ha tante passioni come leggere, l’arte, studio giurisprudenza. Cerco di organizzarmi al meglio possibile perché non è facile. Sono molto legata a Firenze, nessuna può toccare l’amore per questa città. E’ tutto molto semplice. Ho creato il mio equilibrio“.