Fabio Fognini, vent’anni di una carriera che ha riportato in alto il tennis italiano
Oggi il tennis italiano saluta uno degli esponenti più importanti che abbia mai avuto il piacere e l’onore di osservare da vicino. Fabio Fognini ha chiuso la propria carriera. E rimarrà come ultimo match quello con Carlos Alcaraz, uno spettacolo in cinque set che ha visto lo spagnolo impazzire di fronte a quanto sapesse proporgli il taggiasco, tornato come d’incanto a dei momenti che non gli si vedevano più da un bel po’. Ma, stavolta, è davvero l’ultima volta.
Una carriera lunghissima, quella di Fognini. Perché salutare a trentott’anni vuol dire averne vissute davvero tante. E averne vissute già da junior, perché anche nella parabola giovanile fu protagonista assieme a tanti nomi che avrebbero poi attraversato il suo cammino da pro: tra i maggiori si possono ricordare Juan Martin del Potro, Gael Monfils, Novak Djokovic, e se ne potrebbero ricordare ancora tanti tra coloro che sono poi diventati validissimi giocatori e altri che si sono invece affermati come allenatori.
Dei primi anni da pro c’è un ricordo che pochi vantano, pochi possono vantare e ancor meno conoscono, eppure ci fu. Oggi l’ATP non conteggia, per sue ragioni legate a come tratta i testa a testa tra giocatori, le vittorie ottenute fuori dai tabelloni principali dei tornei dagli ATP 250 (o affini del pre-2009) in su. Eppure quel momento c’è, quello di Fabio Fognini che batte Novak Djokovic al secondo turno delle qualificazioni a Roma. Poi il ligure perse da Thomas Johansson, ormai non più quello che sorprese tutti agli Australian Open 2002 vincendoli su Safin (nello Slam più pazzo forse di sempre), ma pur sempre al tempo ostico.
In quella scalata, a Fognini non mancarono altri momenti topici. Compreso il 2007 in cui travolse Andy Murray a Montreal, salvo poi essere a sua volta tolto di mezzo senza troppe cerimonie da Roger Federer (con cui non riuscirà mai a raccogliere anche un solo set nei 4 confronti diretti). Entrato nei 100 con la semifinale al Challenger di Asuncion, nell’anno successivo inizia a fare cose veramente interessanti con due semifinali ATP, vittorie su figure come Schuettler, Canas, Moya, insomma importanti per quegli anni. Un trend continuato anche nel 2009 (in cui a Montecarlo mancò un’occasione clamorosa con Murray al terzo turno: piovve tutto il giorno, si iniziò, 5-0, set point vari mancati, tie-break finito 13-11 per lo scozzese, fine il giorno dopo e 6-4 per il nativo di Dunblane).
Del 2010 la prima di tante partite eroiche: al Roland Garros batté in rimonta, da due set sotto, Gael Monfils. Scena: mentre sta per finire il quinto cala anche l’ombra, si vorrebbe sospendere, non ci vede quasi più nessuno, i riflettori non c’erano, fine alle 21:56 dopo match point mancati e situazioni dell’altro mondo. E conclusione definitiva dopo un altro giorno di pioggia quasi costante, 9-7 al quinto. Poche settimane dopo, contro Verdasco a Wimbledon, la prima vittoria su un top 10 in carica.
E proprio al Roland Garros sarebbero arrivate altre partite dal sapore epico. La prima è forse la più famosa di tutte: contro Albert Montañes agli ottavi si bloccò improvvisamente il ginocchio sinistro (problema muscolare). Nonostante quello e i mille falli di piede chiamatigli, finì 11-9 al quinto. Non giocò per i due mesi successivi. Meno nota, ma ugualmente carica di tensione, la battaglia in cinque set nel 2012 contro il serbo Viktor Troicki. 2012 che fu anche l’anno delle prime finali, quelle perse con Simon a Bucarest e Klizan a San Pietroburgo. Ma c’è un ulteriore lato di quell’anno: alle Olimpiadi diede fastidio a Djokovic togliendogli il primo set, ma il serbo rimontò e vinse (ci sarebbero stati altri incontri dal pattern non lontano, ma Fabio Nole non l’avrebbe mai più sconfitto). E poi, agli US Open, fu l’ultimo giocatore a essere sconfitto da Andy Roddick.
2013: la vera svolta, per la semifinale a Montecarlo con scalpi di Berdych e Gasquet, allora top ten, e soprattutto perché ci fu un’estate rossa sostanzialmente irresistibile. Vittoria a Stoccarda (allora sulla terra), vittoria ad Amburgo (fino ad allora il maggior successo azzurro da Omar Camporese a Rotterdam 1991), finale ad Umago. E lì si costruì una solida classifica da top 20 (16° a fine anno). Come si costruì la leggenda del “most expressive rant ever”, quello durante il match con Melzer a Wimbledon e con Pascal Maria coprotagonista (quasi) silente. Fognini l’abbiamo poi visto essere praticamente gladiatorio in tante occasioni in Coppa Davis, nel bene come nel male. Nel bene, soprattutto: vittorie pazzesche come quella su Andy Murray in Italia-Gran Bretagna nei quarti a Napoli, quando la formula era quella più amata con i weekend interi dedicati. Aveva vinto in Cile e raggiunto la finale a Buenos Aires, ma a cambiare prospettiva fu un ottavo a Montecarlo con Tsonga nel quale, in lotta, perse la calma. E gli ci volle un po’ di tempo per raccattarsi, tra giocatori che lo innervosivano interrompendo il gioco nei modi più disparati e momenti complessi.
Nonostante tutto arrivò il 2015, universalmente ricordato per la pentalogia contro Nadal finita 3-2 per Fognini, nonché per la vittoria negli Australian Open in doppio assieme all’amico Simone Bolelli, che tale è rimasto anche anni dopo. Nadal, si diceva: prima vittoria in semifinale a Rio, con match point in cui c’è tutto Fabio, palla corta deviata dal nastro e controsmorzata vincente, poi a Barcellona, proprio nel feudo del maiorchino, e poi agli US Open con leggendaria rimonta da due set e un break indietro, tirando vincenti di qua e di là, il gioco che dava un fastidio immenso a Nadal. Non per caso i due avrebbero battagliato alla grande anche negli anni successivi. Dopo un 2016 quasi intervallare, ma con la vittoria a Umago, nel 2017 semifinale a Miami con scalpi di Tsonga a Indian Wells e Nishikori proprio a Miami, quindi il colpo di mano su Andy Murray, al tempo numero 1 (ma in un momentaccio) a 10 anni di distanza dalla fatal Montreal. Ma lo scenario qui era quello del Foro Italico. Poi, in estate, il fattaccio: agli US Open non le mandò a dire, nel derby con Stefano Travaglia, alla giudice di sedia Louise Engzell: multa di 24.000 dollari, poi squalifica anche dal doppio (con Bolelli) e privazione del montepremi.
Dopo un 2018 da tre titoli (e contro signori nomi: Jarry a San Paolo, Gasquet a Bastad e soprattutto del Potro a Los Cabos), con annessi quarti di finale al Foro Italico di Roma e successo su Dominic Thiem allora 8 del mondo, ma universalmente 2 sul rosso, il 2019 fu il grande anno. Montecarlo: Rublev, forfait di Simon, Zverev, Coric, Nadal, Lajovic. Paradossalmente, il più semplice degli impegni fu proprio l’ultimo, per chi erano i giocatori e come stavano ai tempi. Il più grande torneo di Fognini, la sua più grande vittoria, il suo più devastante successo su Nadal, un colpo rimasto nella storia. E che gli ha regalato, con le settimane, la top ten, raggiunta con gli ottavi al Roland Garros (ed è forse, assieme al 2018, in cui perse al quinto con Cilic negli ottavi, e al 2021, l’anno in cui più avrebbe potuto ripetere i quarti). Diventato numero 9 a un certo punto, chiuse l’anno da 12°.
Gli ultimi anni si sono rivelati complicati: un’operazione alle caviglie gli condizionò tutto il 2020 che in generale fu già condizionato di suo dal Covid-19, nel 2021 sfiorò i quarti contro Medvedev alle Olimpiadi, ma fu competitivo in tre Slam su quattro, mentre le difficoltà vere iniziarono a giungere dal 2022 in poi. Inframmezzate, sia chiaro, da qualche lampo: un bel match con Jannik Sinner al Foro Italico in quell’anno, il primo turno stravinto contro Auger-Aliassime al Roland Garros 2023 e i quasi ottavi, praticamente all’ultimo, a Wimbledon 2024, con sconfitta al quinto contro Bautista Agut. E infine il 2025. Una stagione da zero vittorie, l’unica della sua carriera, a livello ATP, ma con quell’ultimo picco contro Alcaraz, una partita che ha ricordato al mondo chi è Fabio Fognini. Nel 2019 si era scagliato contro Wimbledon sperando in bombe sull’AELTC in un altro celebre sfogo, nel 2025 Wimbledon lo ha salutato come si conviene a uno dei giocatori più ammirati, per il gioco, sul circuito negli ultimi vent’anni.
Il ligure chiude la carriera con 17 vittorie su top ten, 9 tornei vinti in singolare, 8 in doppio (tra cui uno Slam), il numero 9 ATP, un record di 23-9 in Coppa Davis, dove ha giocato fino al 2022, unico italiano in top 10 sia in singolare che in doppio in campo maschile. Vanta 823 settimane in top 100 in singolare (708 consecutive) e 17 stagioni (16 consecutive), di cui 525 settimane (477 di fila) in top 50 e 220 in top 20. Chiude con 426 vittorie a livello ATP, 95 nei Masters 1000 e 66 negli ATP 500, nonché con 42 semifinali sul circuito maggiore. Numeri che non restituiscono l’estro, il genio unito alla sregolatezza, la sincerità a metà tra il totale e il brutale, le mille sfaccettature nel gioco in cui mostrava una facilità a volte impressionante, insomma non restituiscono Fabio Fognini nel suo insieme. Uno che sarà ricordato tanto, tanto a lungo. Perché prima di Jannik Sinner, di Matteo Berrettini, di Lorenzo Musetti, di Flavio Cobolli, il tennis italiano l’hanno di fatto tirato avanti lui e Andreas Seppi. Due così diversi, così meritevoli.