Pride, perché si dice orgoglio e non accettazione o inclusione?
Storicamente Giugno è il Pride Month, il mese del Pride, e molte città in giro per il mondo tingono le proprie strade con bandiere arcobaleno (e non solo). Durante questo mese sono tantissime le manifestazioni che raccolgono persone che ballano, sfilano, manifestano, portano cartelli, indossano abiti di ogni tipo e si espongono.
I toni del Pride sono quelli di una festa a cielo aperto, ma il significato ultimo di questo corteo è professare e condividere il proprio orgoglio. E in molti, spesso, si chiedono come mai questa manifestazione è collegata al concetto dell’orgoglio, e non a quello dell’accettazione, dell’inclusione o della tolleranza.
Cosa significa la parola Pride?
Originariamente, la parola “Pride” poteva essere tradotta con il termina “superbia” o “presunzione“. Ma dal XIV secolo questa parola ha ottenuto un’accezione decisamente migliore, poiché oggi indica il “rispetto di sé“.
Più nello specifico, Cambridge la traduce proprio come “orgoglio“, in quanto è una “sensazione di piacere e soddisfazione che provi perché tu o le persone a te vicine avete fatto o ottenuto qualcosa di buono“.
Ma come mai c’è stato questo cambiamento? In base a quanto riporta Kaplan, questa nuova accezione della parola Pride si deve agli attivisti Brenda Howard, Robert A. Martin Jr. e L. Craig Schoonmaker, i quali nel 1970 associarono questo termini alle manifestazioni nacque spontaneamente dopo i fatti di Stonewall (di cui parliamo tra poco).
Inizialmente però si parlava di Gay Pride, e infatti le parate portavano questo nome. Negli anni Novanta però questa locuzione è stata abbandonata, con l’obiettivo di aprire le porte a tutte le comunità LGBTQIA+. Oggi si parla anche di Onda Pride.
La nascita del Pride: gli scontri di Stonewall
Il 28 giugno 1969 è una data storica negli Stati Uniti d’America, precisamente a San Francisco, in quanto in un piccolo bar su via Christopher Street nel Greenwich Village di New York si consumarono scontri tra la comunità omosessuale locale e le forze di polizia.
Il bar, Stonewall Inn, rappresentava il cuore della vita gay nella Grande Mela, e fungeva anche da rifugio per tutte le persone che erano state emarginate dalle proprie famiglie e non avevano un posto dove andare la notte.
Purtroppo però all’epoca la società americana non accettava serenamente le persone omosessuali, tanto che dalla politica erano state diramate leggi molto repressive nei loro confronti: basti pensare che esisteva una normativa che impediva alle persone di indossare articoli di abbigliamento che non fossero appropriati alla propria identità sessuale.
Questo permetteva alle forze dell’ordine di fare irruzione nei locali per effettuare questi controlli e anche per constatare il rispetto di un’altra legge, quella della NY State Liquor Authority, che impediva a questi bar le licenze per servire alcolici ai gay.
Nella notte del 28 giugno 1969 però si arrivò a una rottura durante una di queste irruzioni, che si trasformò in un vero e proprio scontro che durò dai 5 ai 6 giorni. Sinteticamente, dagli Stonewall Riots nacque un sentimento di resistenza e orgoglio riguardo la propria identità e preferenza sessuale, che negli anni si trasformò appunto nel Pride. L’obiettivo era professare il proprio orgoglio per le strade senza nascondere sé stessi alla propria coscienza e di fronte agli altri.
Pride contro l’educazione sociale a nascondere
Le persone della comunità LGBTQIA+ sono state influenzate dalle società industriali e moderna a nascondere la propria identità, a reprimere le proprie emozioni, a sentirsi sbagliate, a provare vergogna per i propri desideri e per il proprio corpo.
Con la parola Pride invece viene diffuso il concetto dell’orgoglio di sé, per sé e per ciò che si è. Molte persone hanno vissuto vite intere nel silenzio e con la paura di essere scoperti, di essere licenziati, di essere massacrate di botte.
Dunque l’orgoglio nasce come risposta a tutto questo e all’esigenza di riappropriarsi dell’affermazione di sé, della propria dignità, del diritto a esistere senza doversi giustificare.
Perché non si può parlare di accettazione o inclusione?
Di per sé le parole “accettazione” o “inclusione” non sono terminologie discriminatorie, ma nascondono un’ipocrisia di fondo: implicano che qualcun altro, come la società, le istituzioni e i cittadini, concedano alle persone LGBTQIA+ la possibilità di essere percepite come “diverse“.
La diversità esiste in ognuno di noi, ma spesso viene esaltata come una dinamica di potere: essere accettati vale solo come concessione di chi si trova in una posizione di potere, tanto da diventare un processo passivo.
Invece l’orgoglio è un processo attivo, parte dai diretti interessati, e non chiede il permesso o il via libera, ma si mostra come atto radicale di decidere per sé e di rivendicare attraverso di sé l’esigenza di una società più aperta. Non significa essere accettato, ma essere rispettato. Nessuno dovrebbe accontentarsi di sentirsi tollerato.
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