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Matteo Berrettini si racconta: “Finale a Wimbledon? Non la sognavo neanche”-

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Il tennis in Italia in questo 2021 ha avuto il boom definitivo, con l’apice toccato proprio nelle ultime settimane grazie alle Nitto ATP Finals di Torino e alla Coppa Davis sempre nel capoluogo piemontese. Negli ultimi anni il movimento ha attraversato una fase di grande crescita, e uno dei principali artefici in termini di popolarità e risultati è senza dubbio Matteo Berrettini: il tennista romano ha conquistato la Top 10 nel 2019 mentre ormai da tempo si è stabilito come numero uno italiano. Questi traguardi sul campo inevitabilmente spingono la sua fama anche al di fuori del mondo sportivo, e com’è giusto che sia anche altre fonti d’informazione vogliono raccontare la sua storia. In particolare, nei giorni scorsi Berrettini è stato ospite al podcast Cachemire (l’episodio è stato registrato prima delle Finals che l’hanno visto sfortunato protagonista di un infortunio nell’incontro d’apertura) presentato da Edoardo Ferrario e Luca Ravenna, e in una lunghissima intervista inframezzata da simpatici siparietti ha approfondito molti temi della sua carriera.

“Da bambino non ho mai pensato di voler diventare il più forte di tutti, ma quando scendevo in campo volevo essere più forte del mio avversario in quel momento”, ha spiegato semplicemente Matteo. “Quando sono entrato nel tour vedevo tanti ragazzi italiano più forti di me e mi dicevo, ‘chissà, magari un giorno…’, però mi sembravano troppo forti. Ho vissuto tutto passo passo, non ero un bambino che puntava alla classifica. Nel 2019 c’è stato uno sbalzo importante dove ho iniziato da N.50 e ho finito da N.8. Dopo lo US Open di quell’anno, dove sono stato abbastanza massacrato da Nadal in semifinale, mi sono detto che ero tra i quattro migliori tennisti del mondo in quelle due settimane in cui si è giocato il torneo”.

Che l’aspetto mentale nel tennis rivesta un ruolo preponderante è arcinoto, e anche Berrettini ha imparato ad affrontare la cosa da tempo ormai. “Quando sono troppo tranquillo in campo vuol dire che c’è qualcosa che non va. Da quando ho 17 anni collaboro con un mental coach per cercare di gestire determinati momenti di tensione, ma quello che dico sempre è che bisogna cercare di conoscersi, perché quando ti succede una cosa per la prima volta sei un pochino invaso da tutte le emozioni, poi la seconda volta dici ‘ah ma questo è già successo, proviamo a fare questo’, poi non è che succede sempre però è già qualcosa”. Ma a livello pratico come si può gestire la pressione prima di un match o un evento stressante? “Spesso quello che faccio è spezzare il fiato: nelle occasioni importanti prima di entrare in campo cerco di fare qualcosa che mi fa salire le pulsazioni, che mi fa sudare. Così sono già attivo perché sennò entri in campo e ti chiedi ‘ma l’aria l’hanno tolta?'”

Il punto più alto della sua stagione, nonché della sua carriera finora, è la finale raggiunta a Wimbledon e persa in quattro set contro Novak Djokovic. Lo Slam inglese è indiscutibilmente un luogo magico per questo sport e il venticinquenne romano se ne accorse sin da subito. “Ci ho giocato la prima volta nel 2014 nel torneo juniores, quindi Under 18. Persi al secondo turno se non erro, e tornando in Italia dissi che secondo me Wimbledon è un posto che bisogna vedere una volta nella vita anche se non capisci nulla di tennis, perché è un tempio. E quindi avevo sempre avuto questa sensazione che sarebbe successo qualcosa di speciale, anche se così speciale non l’avevo mai pensato e neanche sognato”. A sentirlo parlare infatti sembra che il primo ad esser rimasto sorpreso della sua impresa sia lui in persona. “In finale ci sono arrivato con tanta fiducia perché ho vinto il torneo prima [Queen’s, ndr] e quindi in conferenza stampa mi dicevano che i bookmakers mi davano per finalista, e io pensavo ‘questi sono matti’, però poi parlando anche col mio allenatore mi sono reso conto che stavo giocando veramente bene. Il mio tennis si adattava alla superficie”.

Il discorso poi è passato al suo rapporto con i grandi tennisti del passato, figure sempre presenti e glorificate nel tour ma che a volte con le loro opinioni possono sfociare in osservazioni anacronistiche. Matteo anche su questo tema mantiene una gran lucidità sottolineando entrambi i risvolti della medaglia. “È famosa la frase di Panatta ‘io non ho mai fatto preparazione fisica’, Io venero Adriano nel senso che è stato uno dei primi che mi ha detto ‘tu servirai a 220km/h’; è uno che di tennis capisce tantissimo, però alla sua epoca non c’era bisogno di farla. All’epoca ti allenavi giocando, e un’altra cosa che mi diceva sempre Pietrangeli è che l’assegno che ha ricevuto per il Roland Garros era di tipo 150 dollari, una cosa irrisoria. Quindi ti fa capire che loro non ci vivevano di questo, era diverso”.

Tanto successo però implica anche tante rinunce che col senno di poi possono sfociare in rimpianti. Una cosa che successivamente mi è dispiaciuta è di non aver potuto finire la scuola pubblica. Ho fatto quarta e quinta liceo scientifico ma privato, anzi centro studi, quindi studiavo per conto mio. Però insomma sappiamo come funziona lì: ero contento perché dovevo giocare a tennis e perché a 17 anni a nessuno penso piaccia studiare. Guardandomi indietro alla fine mi son detto di aver perso due anni e che sarebbe stato meglio finire la scuola”.

Infine la lunga e distensiva intervista non poteva sorvolare sul tema Federer. “L’ho incontrato la prima volta nel 2015”, ha ricordato Berrettini riferendosi al torneo romano. “Il mio coach mi chiamò: ‘C’è da scaldare Federer, che vuoi fare?’. Mezz’ora prima mi aveva detto ‘Domani day-off’, quindi credevo stesse scherzando, il mio Coach Vincenzo [Santopadre ndr] era solito scherzare. Parlo con un mio amico, Flavio Cipolla, e mi dice ‘sembra che sia rilassato ma il ritmo è alto, scaldati bene’ e allora mi fiondai sul tapis roulant del Foro Italico. In semifinale a Roma Federer partì malissimo, sotto 3-0, e i miei amici mi insultarono ‘Questo non perde da una vita, ma cosa gli hai fatto nel riscaldamento’. Cominciai a sudare. Poi per fortuna vinse la semifinale. La sera prima della finale mi chiamarono dal desk dei campi di allenamento dicendomi che aveva chiesto di me, è stato molto bello.”

Gli aneddoti sullo svizzero non finiscono qui: “La volta successiva fu Wimbledon 2019, ottavi, vinsi 5 game in totale, mi sudavano le mani ma ero proprio felice di poter vivere quell’esperienza. Ho fatto ridere per come ho giocato, ma quella partita mi è servita molto per quelle contro i grandi avversari che ho giocato dopo, ero più pronto. Bisogna fare degli errori, bisogna prendere le sveglie. Ero contento per come era andata anche se dispiaciuto“. E il seguito dimostra che qualcosa l’ha imparato.

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