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NBA #Finals 2019-20: il tiro della vita fallito da Green

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Comunque vadano a finire le #Finals, sarà un successo.

Un successo per Adam Silver, per la riuscita di Bubble City: dai seeding games fino a queste splendide finali, un’estate indimenticabile, in barba agli scettici e alla faccia di chi si arrampica sugli specchi continuando a definire la Nba un circo, a denigrare il “non” gioco del basket moderno, la presunta mancanza di difesa e si sfrega le mani con l’espressione del famoso meme di Di Caprio snocciolando le cifre degli ascolti in calo. Sarà bello rispondere per le rime ai nostalgici che vorrebbero cancellare qualche linea dal parquet, ma a bocce ferme e a mente fredda e lucida. Non è questa la sede.

Un successo per LeBron James che, dopo un anno ai box, è tornato ai playoff da dominatore rinverdendo i fasti dei Lakers. Certo, ha con sé Anthony Davis, cioè uno che, in coppia con chiunque altro al mondo, sarebbe l’opzione numero 1. Ogni tanto ha Rondo e Howard che si ricordano di essere stati dei giocatori di basket (e che giocatori!), ma veramente poco altro e diamine, lo ha voluto lui, mandando a NOLA tutto il patrimonio di talento messo insieme nel dopo-Kobe (oddio, Kobe, quanto mi manchi! E con la mamba jersey è perfino peggio…). Sono scelte che paghi con certe prestazioni diciamo sottotono dei gregari e ci sta che poi fatichi a chiuderla anche quando dovresti e, tutto sommato, lo meriti.

Un successo per la meritocrazia come solo una palla a spicchi sa realizzare: Miami è alle Finals perché ha più senso di Phila, più profondità di Boston, più talento diffuso dei Raptors, più attributi del resto del mondo; Los Angeles, sponda Lakers, è lì perché ha più senso di Houston, più potenza di Denver, più versatilità e marce dell’altra sponda. E ha un duo dominante come nessun altro, in attesa di vedere all’opera Irving e Durant.

Un successo (lasciatemelo dire!) per noi di All-around.net, forse gli unici al mondo a pronosticare Miami fino in fondo alla stagione e fin da ottobre (guardare per credere)! Per una volta, diamo a Cesare quel che è di Cesare…

Tutta questa premessa, apertissima alle critiche che più vi aggradano, per dirvi, però, che l’argomento di oggi è tutt’altro. Perché le Finals potrebbero essersi chiuse già da un pezzo, se Danny Green avesse convertito l’assist di LeBron a 9 secondi dalla sirena finale di gara 5! Bella scoperta, direte voi: con i Lakers sotto di 1, se avesse segnato quel canestro, tra tempo agli sgoccioli e contraccolpo psicologico, Miami sarebbe andata ai titoli di coda e per le strade dei Los Angeles sarebbe esploso l’inferno. Invece no: in questa sfida tra città delle palme e del piacere, è il piacere di assistere a un’altra epica battaglia, a vincere, insieme con la “cazzimma” della star guerriera e finalmente consacrata che risponde al nome di Jimmy Butler. D’ora in avanti, tutti i bulimici di ranking e pronostici dovranno fare i conti con lui e i suoi Heat, già in finale quest’anno e con ampi margini di ulteriore miglioramento per il prossimo futuro!

Cosa c’è da discutere, dunque? Tanto, e non sarà facile condensarlo in poche righe, perché la palla a canestro è così: dietro un tiro mal riuscito c’è tutto il mondo interiore della vita da gregario di Danny Green, improvvisamente elevato a potenziale uomo dell’anno e, in una frazione di secondo, precipitato all’inferno come fosse l’ultimo dei bidoni (signori, questo è lo stesso uomo che ha aiutato Toronto a entrare nella Storia dalla porta principale, ha ancora l’anello del potere al dito e forse sta per infilarne un altro, il terzo, con merito, non come Waiters, non scherziamo!). E, soprattutto (e veniamo al dunque), dietro quella scelta di tiro c’è tutta l’essenza (questa volta negativa) di un basket moderno che deve ancora crescere perché diventi basket totale.

Sarà bene riguardare insieme il video:

James ha appena tentato il drive richiamando su di sé 4 avversari. Ha l’intelligenza e trova faticosamente la coordinazione per riaprire il campo con un passaggio quasi impossibile e inevitabilmente impreciso, troppo basso, per Green, che deve raccoglierlo praticamente da terra e risistemare il corpo in asse col canestro. È, conseguentemente, fuori ritmo ma ha almeno 5 metri di spazio, forse di più, di fronte a lui solo il difensore che si è sganciato dal lato debole per tentare un disperato quanto scoordinato closeout di mero disturbo visivo. Tutti gli altri difensori sono fermi sotto canestro. Nove secondi sono una vita…

Green ha tre opzioni possibili: la prima, istintiva, è quella di tirare. I piedi sono a posto, ma se sbaglia ha poche speranze di rimbalzo. La seconda, che pure qualcuno, intelligentemente, ha già sottolineato sui social, servire Caldwell Pope in angolo, ovvero nella sua comfort zone e ormai libero dal suo marcatore. La terza, quella che personalmente avrei scelto e che, invece, nessuno ha preso in esame: mettere palla a terra, facendo così saltare il closeout, e avanzare per un jumper dalla lunetta che sarebbe stato ancora incontestato, praticamente un tiro libero! Perché no, allora? Perché il dogma del basket moderno, che molti tiratori faticano a superare, prevede che i piedi scottino se si prova a varcare la linea dei 7,25, nonostante si sia sotto di un solo punto e nonostante sia un buon tiro, probabilmente migliore di quello scelto da Green, perché altrettanto open, ma ben più in ritmo. Lui è un tiratore, dunque si è lasciato, forse, guidare dall’istinto, forse dalla fiducia nel suo armamentario tecnico o dalla sfiducia per un gesto a lui meno avvezzo, ma il punto sta proprio qui: con nove secondi da gestire, devi avere la lucidità per fare la scelta migliore. La sua, alla resa dei conti, non lo è stata. Molti avrebbero agito allo stesso modo perché, purtroppo, ormai, la mentalità diffusa è questa: catch and shoot da tre punti.

Per carità, con tutto il tempo e lo spazio che aveva a disposizione, era un buon tiro anche quello e non mi scandalizza la scelta fatta dal giocatore, né mi permetto di spingere oltre la mia critica, comodamente seduto in poltrona: tutta la pressione era sulle sue spalle e tutti possono sbagliare un tiro. Quel che mi fa specie e riflettere è che le reazioni dei commentatori, giustizialiste o giustificazioniste che fossero, non hanno neppure preso in considerazione l’evenienza di un buon palleggio, arresto e tiro. C’è stata una piacevolissima inversione di tendenza rispetto alla riscoperta del midrange, durante questo strano e irripetibile finale di stagione, ma non tale da indurre anche un buon giocatore a fare la cosa giusta andando oltre la propria prassi di gioco. E, quel che forse è ancor più emblematico, nessuno lo ha notato. Evidentemente la pallacanestro sta ancora crescendo e noi appassionati con lei.

O, forse, semplicemente, nonostante le mie arie da paladino del basket moderno, sono io troppo retró…



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