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Michele Mian, basket: “Europei 2003 la vera costruzione dell’argento di Atene 2004. Con la Francia di Parker fu un capolavoro”

Michele Mian oggi, con il basket di vertice, non ha a che fare. Preferisce avviare i più piccoli a questo sport, dando loro un’impronta e soprattutto la passione per questo gioco, quella che viene prima di tutto a ogni livello, dalla NBA alle minors fino ai campetti. Il suo ruolo nella pallacanestro italiana, però, è stato importantissimo: è uno dei soli cinque giocatori, assieme a Gianluca Basile, Giacomo Galanda, Denis Marconato e Roberto Chiacig, ad aver conquistato l’oro agli Europei del 1999, il bronzo a quelli del 2003 e l’argento alle Olimpiadi di Atene 2004. Lo abbiamo raggiunto per un’intervista telefonica in cui ha ricordato molti momenti non solo della sua carriera azzurra, ma anche di quella di club, in cui ogni capitolo ha avuto una sua parte significativa per tante ragioni.

Adesso che hai smesso da un po’, che cosa fai?

“Dopo che ho smesso di giocare ho seguito la GIBA per un periodo, e poi mi sono sempre interessato alla pallacanestro tra i giovani. Ho un’associazione sportiva a Udine dove facciamo attività coi bambini del minibasket e adesso siamo arrivati ad avere le squadre giovanili”.

Udine che ha ricominciato ad avere un suo livello cestistico non soltanto con l’Apu, ma anche a livello giovanile.

“Io sto facendo attività per i bambini soprattutto piccoli, e conosco quel tipo di realtà. Tutt’intorno faccio fatica a dirne. Di sicuro questa è sempre stata una buona fucina di giocatori, anche se è confermato a livello italiano che far riuscire a uscire tanti giocatori di un certo livello come una volta è sempre più difficile”.

A proposito di bambini piccoli, c’è un problema legato al discorso motorio: con l’evoluzione della tecnologia, si cercano di calmarli con il gioco sul computer o sul tablet spesso.

“Adesso è un fatto proprio culturale. È cambiato il tipo di vita. Io, quand’ero piccolo, sono cresciuto in un paesino, neanche in città: scendevi, trovavi qualche ragazzo e t’inventavi sempre qualcosa da fare, che poteva essere giocare a pallone, a nascondino, uscire in bici, o qualsiasi altra cosa, o fare una capanna, o saltare un fosso. Il ragazzo di una volta faceva un’attività motoria di base senza accorgersene. Si arrampicavano sugli alberi e via dicendo. Tutte capacità che sviluppavano sin da piccoli. Dopo le nuove generazioni questa possibilità non ce l’hanno fondamentalmente, perché l’attività motoria che fanno spessissimo è strutturata, cioè la fanno in una palestra, che può essere di qualsiasi tipo di sport, e non hanno più anche il piacere e il momento di crescita, anche del confronto tra i pari. L’attività è strutturata da un adulto, fondamentalmente. Questo, sia da un punto di vista fisico che relazionale, è un grosso handicap”.

Parlando della carriera, si è chiusa col botto: con i due anni a Cantù culminati nella finale scudetto della stagione 2010-2011 con Trinchieri allenatore.

“Io sono sempre stato molto fortunato, perché mi sono sempre divertito a giocare fino alla fine, non ho mai avuto grossi problemi. Mi son tolto anche delle soddisfazioni. Magari non era, il mio, un ruolo da protagonista, ma ero inserito in una squadra molto forte. Mi si chiedevano alcune piccole cose, e comunque riuscivo a dare un contributo e sono stati degli anni bellissimi. Abbiamo fatto due finali di Coppa Italia, la finale e una semifinale scudetto. Sono stati veramente begli anni”.

Ruolo da comprimario però non di poco conto, perché chiudere con il 40% da tre in carriera è tanto.

“Peraltro Trinchieri l’avevo già conosciuto l’anno prima a Veroli, e in realtà mi stava cercando ancora da anni precedenti. Con Andrea si è creato un feeling super, ci siamo trovati benissimo. Mi chiedeva alcune cose, c’era un rapporto di estrema fiducia per entrambi. Mi utilizzava, magari, col contagocce, ma anche nei momenti chiave. Io ero un giocatore d’esperienza, poi era anche un esempio per la squadra. Tanti americani mi dicevano: ‘Ma come fai a 38 anni ad allenarti ancora così, sempre forte, sempre sul pezzo?’. Se vedono uno di una certa età, con una buona carriera, che si impegna ed è d’esempio per gli altri, diciamo che motivavo e trascinavo anche gli altri ad adeguarsi a un metodo di lavoro che mi ha sempre contraddistinto nella carriera”.

A proposito di Veroli, quello è stato un luogo di pallacanestro di valore, che ha anche sfiorato l’A. Ci fu la partita con Varese che di fatto era uno spareggio promozione nella stagione 2008-2009.

“Avevamo vinto anche la Coppa Italia di categoria. Per me è stato un anno indimenticabile anche perché è nato mio figlio a Sora”.

Allora c’era la squadra, ma non c’era il palazzetto e la Prima doveva giocare a Frosinone. Ora che c’è il palazzetto non c’è la squadra, e ci giocherà la Stella Azzurra.

“Purtroppo succede spesso: capita che metti a posto il palazzetto, o ne fai uno, e rischi di non avere la squadra”.

A volte rischi anche di non avere gli impianti in generale, e in questo senso c’è un problema, in Italia, che è gravissimo.

“Purtroppo sono tutte strutture anche un po’ poco tecnologiche. Ora si dovrebbe fare in modo che accolgano più attività, per cercare un po’ di investimento e di mantenimento”.

A proposito di impianti e pallacanestro, i tuoi anni migliori e più importanti li hai giocati a Udine nel vecchio PalaCarnera.

“Lì ho sempre grandi ricordi anche perché, a proposito di palazzetti che si rifacevano o ristrutturavano, ho giocato anche due anni con Gorizia. Il primo anno da professionista ho fatto la promozione dalla B all’A2 e anche il primo anno di A2 lì al Carnera, dunque è un posto che conosco molto bene. È un po’ piccolo, ma ha il suo fascino”.

L’ambiente di Udine di allora come te lo ricordi?

“Nei miei anni c’era un grande entusiasmo perché, dopo un po’ d’anni che non c’era il basket di alto livello, c’è stato l’ingresso di Snaidero che nel primo anno ha centrato la promozione dall’A2 all’A1, e poi sono stati sei anni di A con alti e bassi. Però sempre tanto entusiasmo”.

E anche con gente importante, viene in mente Jerome Allen.

“Fra l’altro con Jerome ho giocato più volte, perché anche nella parentesi di Veroli venne perché doveva sostituire Robinson, che era infortunato. Se lo ricordano anche a Roma, prima dell’infortunio, aveva un’esplosività pazzesca. Un leader nato. Aveva una personalità molto forte, carismatica”.

Si parlava di Gorizia: è stato l’inizio. E in tal senso, com’è nato il tuo percorso verso la pallacanestro?

“Io fondamentalmente avevo iniziato a giocare da piccolissimo, a sei anni, a minibasket. Non mi era piaciuto e me n’ero andato a giocare a calcio per quattro anni o cinque. Dopo il basket l’ho conosciuto al campetto con mio fratello, d’estate. Lui già giocava da tanto tempo, mi sono ritrovato con lui al campetto, mi è piaciuto, e da quella volta ho cominciato. E poi è nata questa passione incredibile, fondamentalmente grazie a mio fratello. Giocavamo tantissimo, c’era una competizione incredibile tra fratelli, lui tre anni più grande di me. C’era questa competizione, facevamo partite 1 contro 1 ai 100 punti lunghissime. Non vincevo mai, perché lui era più grande di me, poi crescendo questa competizione è diventata sempre più dura. Poi ricordo, in quel periodo lì, la passione per la NBA che aveva preso piede anche in Italia. Io rappresentavo i Lakers di Magic Johnson e lui i Celtics di Larry Bird. Facevamo questi scontri epici al campetto”.

Gli anni delle telecronache di Dan Peterson.

“Quel primo periodo è stato l’unico che un po’ ho visto anche in tv, perché poi in televisione fin dai primi Anni ’90 non è che mi sia piaciuto molto guardare. Ero più sul campetto a fare sport che non a informarmi e fare basket, chiaramente”.

Se non si trattava delle riunioni video.

“Infatti. Chiaramente quelle erano obbligatorie. È capitato che qualche allenatore mi chiedesse di qualche giocatore e avevo delle difficoltà a rispondere, nel senso che conoscevo gli avversari, ma più di quel che avevo visto io avevo difficoltà”.

Tornando a Gorizia: quella squadra era tornata in A dopo tanto tempo. Poi sono successe tante cose, però quell’anno ti ha consentito di arrivare a Parigi ’99.

“Per me Gorizia è stata fondamentale, perché mi ha fatto crescere. Io fondamentalmente sono cresciuto lì, perché da 14 anni in poi ho fatto tutte le giovanili lì, poi ho cominciato a fare gli allenamenti con la prima squadra in B, all’epoca, e poi ho avuto la fortuna di crescere insieme alla società. La famiglia Terraneo, all’epoca, ha investito molto e ha creduto fortemente nella squadra in Serie A dopo tanti anni, e man mano c’era una squadra sempre più forte. Io ho avuto la fortuna di crescerci assieme. Ci sono state le esperienze in B, poi in A2, poi la finale per salire in A1. La cosa clamorosa, e bellissima, il derby contro Trieste, lì c’è stata la soddisfazione dell’intera città. Raggiungere e vincere una finale playoff con Trieste è stata una soddisfazione enorme, c’era una bolgia incredibile al palazzetto ed entusiasmo anche in società”.

Credit: Ciamillo

Parigi ’99: soddisfazione quasi per eccellenza, e il quasi è perché poi ne è arrivata anche un’altra. Ci sono ricordi e aneddoti particolari di quelle due settimane in Francia?

“Lì io ero tra i nuovi arrivati in quel gruppo. Non ero tra i protagonisti, però la forza di quella squadra lì è stata la capacità di fare squadra, gruppo, di mettere a disposizione ognuno le proprie qualità e di creare lo spirito giusto per fare una grande impresa poi. Da Tanjevic a tutti i giocatori, è stato veramente entusiasmante. Non facile, tra le altre cose, perché ci sono stati dei momenti difficili, tra qualificazioni e prima fase, poi però, nei momenti veramente decisivi, sono uscite delle prestazioni fantastiche”.

Una squadra che è entrata in forma a torneo in corso, perché si può perdere con la Croazia e poi farsi massacrare da Arvydas Sabonis, però conta il giusto quando vinci.

“Secondo me siamo stati anche ‘fortunati’ perché la Spagna ha buttato fuori la Lituania ai quarti. Noi facemmo la partita clamorosa con la Jugoslavia. Però la Lituania che avevamo affrontato, con Sabonis, era fortissima. Mi ricordo quella partita, e penso di non aver mai visto in tutta la mia carriera un giocatore dominare la partita in venti minuti come ha fatto lui quella volta. Era impressionante, ma penso che sia stato il più grande giocatore europeo di sempre, per come l’ho visto io. Fra le altre cose super infortunato, e con una certa età”.

Infatti parliamo di un ‘mezzo’ Sabonis, perché stiamo parlando di un giocatore che aveva già i suoi buoni problemi quando andò in NBA, e che chi lo sa cos’avrebbe potuto fare senza gli infortuni.

Lui probabilmente sarebbe diventato uno dei centri più dominanti della storia della NBA in carrozza. Già così era dominante. Un giocatore di quell’altezza, con quelle mani, quell’intelligenza e una visione di gioco pazzesca. Aveva tutto. Tutto. Un playmaker nel corpo di un centro con il tiro di una guardia”.

Anche Fucka non è che fosse così tanto da meno, con i dovuti distinguo.

“Diciamo però che il fisico di Sabonis era quel che era. Gregor comunque quell’anno lì ha fatto la differenza, assolutamente”.

Ci sono stati quei 2-3 anni in cui il lungo d’Europa era lui, non volendo considerare Sabonis che veniva da un altro pianeta.

“Sono state delle belle soddisfazioni”.

Ancora maggiori nel biennio 2003-2004. 2003: terzo posto agli Europei, sul quale nessuno dopo le prime due partite avrebbe scommesso un soldo bucato. E ancor meno lo si scommetteva sull’argento di Atene.

Secondo me la vera impresa l’abbiamo fatta nel 2003. Tutti parlano dell’argento olimpico perché è stato un risultato clamoroso, sono state partite clamorose, però, il vero momento di costruzione dell’argento del 2004 è stato il 2003. Un’estate travagliata, difficile, tutti i giocatori di punta non c’erano ed era da ricostruire un nuovo gruppo, con nuovi equilibri, nuove motivazioni, un nuovo modo di giocare. L’hanno chiamata la Nazionale operaia. Ci sta. Io non ho mai giocato in una squadra così compatta. Avevamo un orgoglio personale e di squadra pazzesco. Tutti quelli che entravano facevano o cercavano di fare la cosa giusta. Se c’era un problema si risolveva insieme. Abbiamo, come le grandi squadre, cercato di coprire i nostri difetti sia di squadra che individuali e di massimizzare i nostri pregi. Ognuno riusciva a dare il suo piccolo, ma grande contributo: è stato un percorso felicissimo, perché avevo passato un’estate non facile. Però alla fine è venuto fuori il carattere. Sono veramente legato a quei ricordi e a quell’esperienza. C’è stato un momento difficilissimo, perché avevo una preparazione complicata, poi avevamo trovato il nostro equilibrio nei tornei in Francia e in Turchia, poi ci son state le due sconfitte con Slovenia e Francia (con tanto di -33) che non sono state per niente facili. Poi abbiamo avuto tutte partite da dentro o fuori. Io mi ricordo i titoli, già allora si gridava all’Italia peggiore di sempre, poi abbiamo avuto la partita con la Bosnia-Erzegovina e ci siamo qualificati per lo spareggio contro la Germania di Nowitzki. Noi, finita la partita con la Bosnia, avevamo pronti i bagagli sia per il trasferimento che per tornare a casa. Finita la partita siamo tornati in albergo, ci aspettava l’aereo. Morale della favola: siamo atterrati, caricandoci e riscaricandoci i bagagli, e siamo andati a dormire alle 4-5 di mattina. E il giorno dopo giocavamo. E anche lì una partita tiratissima con la Germania, con Nowitzki che, ovviamente, era il faro di quella squadra e giocatore fortissimo, perché era in una super fase della carriera in quel momento, e ci siamo qualificati per le prime otto. E anche lì è stato sempre più difficile qualificarsi per le Olimpiadi, perché all’inizio sembrava che bastasse arrivare tra le prime cinque. E invece noi, battendo la Grecia, che era una delle cinque che avrebbero coperto i posti, li riducemmo a quattro. Poi la sconfitta della Serbia e Montenegro (nel frattempo la Jugoslavia aveva assunto questo nome; il Montenegro, via referendum, sarebbe diventato indipendente nel 2006, N.d.R.), che nessuno si aspettava, significò che nemmeno arrivare tra le prime quattro bastava. Dovevamo arrivare tra le prime tre. Poi la finale per il terzo posto, contro la Francia di Parker, che alla prima ci aveva dato 33 punti, è stata un altro piccolo capolavoro, con tutte le difficoltà. Ricordo che c’erano Basile e Bulleri acciaccati, e quindi io e Davide Lamma dovevamo portare su palla. Chiedetemi tutto, ma non di portare su palla, perché ho avuto tanti difetti e alcuni pregi, ma il palleggio non era il mio forte, diciamo“. (ride)

In quella partita, fra l’altro, entra Lamma, e i francesi non vedono più palla.

“Son stati veramente clamorosi. Hanno dato il loro contributo e si son fatti trovare pronti, cosa veramente difficile”.

Anche quella dell’anno dopo, di Nazionale, era con quello spirito operaio, pur essendoci Pozzecco: l’ossatura era quella del 2003, con tre cambi.

“In quel momento siamo riusciti, e il Poz c’ha messo del suo, a inglobare una personalità forte come la sua, e ad avere il talento e l’estrosità sua al servizio di un gruppo solido. Gianmarco ci ha dato un po’ di fantasia, talento ed estro e abbiamo ottenuto un risultato incredibile”.

Oltre alla piazza di Gorizia, di Udine del tempo, a quella passionale di Veroli, c’è stata quella di Rieti, una delle più calde d’Italia. Com’è viverla da dentro?

“Sono stati due anni bellissimi, mi sono trovato benissimo, è una bellissima città dove vivere, in una dimensione così mia, personale. Ho ricordi bellissimi. Io ho avuto la fortuna di giocare in tanti posti dove il basket lo vivevano veramente in maniera pazzesca. Il primo anno in cui sono arrivato abbiamo subito fatto la promozione, raggiunta proprio all’ultimo ed è stato bellissimo. Ricordo ancora l’emozione di quando siamo arrivati in piazza dopo aver vinto a Pesaro. È stata una cosa incredibile vedere migliaia di persone alle 2-3 di mattina. Una cosa pazzesca”.

Poi ci fu anche Bonora in squadra, che tu avevi avuto come compagno in Nazionale.

“Lui c’era già nell’anno della promozione. Ci siamo trovati benissimo tra di noi, era un bel gruppo, ci frequentavamo tantissimo con le famiglie, le ragazze, è stato un bel periodo. L’anno dopo abbiamo fatto il nostro bel campionato, poi io sono andato via. Però quei due anni lì sono stati bellissimi. Ho avuto, ripeto, la fortuna di giocare in tante piazze super”.

L’ultima delle quali lo è per eccellenza.

“Sì, a Cantù c’era un tifo veramente clamoroso, una passione pazzesca. Il Pianella come struttura era quel che era, però giocarci con tutto il tifo a favore è una cosa fantastica. C’era un’atmosfera incredibile”.

Poi lì dentro anche se non sai il pezzo di storia che c’è te lo fanno sentire.

“Davvero, è super. Poi lì è nata l’altra mia figlia a Como. C’è sempre quest’associazione tra basket e cose personali. Ho vissuto due anni stupendi dove sono riuscito a conciliare un po’ tutto, famiglia, basket, lavoro di mia moglie. Oltre l’aspetto sportivo, per me è stato veramente super. Ogni volta che ci tornavo per anni mi scendeva una lacrimuccia”.

Quali sono gli allenatori che ti hanno segnato e insegnato di più?

“Per me i miei allenatori decisivi sono stati il mio primo del minibasket, che è stato quello che mi ha insegnato lo spirito di squadra. Mi ricordo ancora una partita tiratissima, era l’ultima azione, sono andato in contropiede, potevamo vincere segnando quel canestro, c’era un compagno più libero, io gliel’ho passata, lui ha sbagliato e poi abbiamo perso la partita all’ultimo secondo. Lui mi ha detto: ‘Bravo, hai fatto la cosa giusta, lui era libero e tu gliel’hai passata’. Questo è proprio lo spirito del gioco di squadra, di fare la cosa giusta. Questo è stato il mio primo allenatore. Poi devo molto a Drazen Dalipagic, in quanto mi ha fatto giocare quando ero ragazzo, e poi sotto l’aspetto tecnico la svolta me l’ha data Fabrizio Frates. Mi ha dato una dimensione diversa di gioco, dell’arresto e tiro, dell’uscita dai blocchi, abbiamo lavorato tantissimo su queste cose qua. Poi anche Boscia Tanjevic è quello che ha creduto in me ad alti livelli. Mi ha chiamato in Nazionale quando giocavo ancora in A2″.

Quali sono le persone che hai avuto più difficoltà a marcare?

“Sugli avversari era una cosa molto particolare. Io fondamentalmente non ero un atleta di livello, e quindi teoricamente facevo più fatica a marcare i giocatori veloci. Però certi giocatori, anche se erano mostri e più veloci di me, riuscivo a capire e a condizionarli, e a marcarli bene. Intuivo anche le loro intenzioni. Faccio un nome su tutti: Henry Williams. Riuscivo a marcarlo molto bene. C’erano invece certi giocatori difficili perché non riuscivo a marcarli. Erano meno veloci, ma potevano essere più bravi a nascondere le loro intenzioni”.

Quali sono i compagni con cui ti sei trovato meglio in assoluto?

“Tanti. Da quando ero ragazzo fino alla fine della mia carriera. Fare nomi mi sembra anche poco piacevole. Però ce ne sono stati tanti, se facessi dei nomi sento che farei torto a qualcuno”.

Qual è il palasport più impressionante in cui hai mai giocato?

“In realtà non c’ho mai pensato. Certo, quando ho giocato a Gorizia con Trieste o le finali scudetto con Cantù, certe partite di Rieti, ce le ho ben presenti, però sentivo il pubblico”.

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federico.rossini@oasport.it

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Credit: Ciamillo

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