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Il Centre Court protegge, l’Ashe travolge: due mondi, lo stesso sport

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Il primo passo che metti dentro il Centre Court di Wimbledon è come entrare in una cattedrale: le voci si abbassano, il respiro si fa lento, ogni rumore viene assorbito dall’erba e dal rispetto. All’Arthur Ashe di New York, invece, l’impressione è opposta: luci, musica, brusii che non si fermano mai. Non c’è raccoglimento, c’è movimento; non c’è pausa, c’è ritmo. È la città che non dorme mai a prendere possesso del tennis, trasformando un match in uno spettacolo che sembra più Broadway che Chiesa anglicana.
Londra ti accoglie con il verde curato e il silenzio che accompagna il tennis come fosse un rito. New York, invece, spalanca le porte del suo stadio più grande con la stessa energia di Times Square: musica, rumore, brusii che non finiscono mai. Wimbledon protegge, l’Ashe travolge. E il contrasto non potrebbe essere più netto, quasi brutale, se vissuto a distanza di poche settimane.

La voce dei protagonisti

A ricordarcelo, ieri notte, sono stati anche Jannik Sinner e Lorenzo Musetti, protagonisti del derby azzurro allo US Open. In conferenza stampa Sinner ha sorriso, con quella calma che lo contraddistingue:
Beh certo, non siamo mica a Wimbledon, ha risposto a chi gli chiedeva se il rumore dell’Ashe fosse stato un fastidio. Ma poi ha aggiunto: L’Ashe ha il suo fascino proprio per questo motivo, anche per la sua grandezza. Parola che possiamo tradurre meglio con “imponenza”: l’imponenza di un’arena che con oltre 23 mila spettatori resta il più grande stadio di tennis del mondo.
Per Musetti, invece, l’impatto è stato ben diverso. Per lui era la prima volta assoluta sull’Arthur Ashe, e affrontare un simile palcoscenico contro il miglior italiano di sempre non è stata impresa semplice. Lo ha detto senza giri di parole: “Ha vinto il più forte”. E su questo non ci sono dubbi, ma dietro quelle parole si intuisce anche la difficoltà ad abituarsi a un ambiente che non concede respiro: lo sguardo che vaga sulle tribune interminabili, il brusio che non si spegne mai, i riflettori che ti inseguono a ogni cambio campo e quel “non riuscivo a sentire il mio angolo” che dà la misura dell’abitudine – o meglio, della non abitudine al contesto.

Due mondi lontani

Wimbledon e New York rappresentano due poli opposti. Il Centre Court custodisce la tradizione: il silenzio assoluto, i colpi che rimbombano netti come in una sala da concerto, il pubblico che applaude misurato, quasi trattenuto, come se ogni eccesso potesse infrangere l’equilibrio del rito. L’Ashe, al contrario, non conosce freni: vibra, urla, accompagna. Il brusio diventa sottofondo costante, parte integrante della partita. Non è una distrazione, è un tratto identitario.
Chi ha vissuto entrambi i teatri lo percepisce con chiarezza. A Londra il campo centrale sembra proteggere i giocatori, quasi avvolgerli in un guscio di silenzio. A New York lo stadio ti travolge, ti sovrasta con le sue dimensioni, ti ricorda che lì sei soltanto un frammento dentro una metropoli che vuole guardare, parlare, esultare.

Sinner a suo agio, Musetti all’esordio

Per Sinner, che ormai ha fatto dell’Ashe un terreno familiare, l’impatto non è più un ostacolo: ne ha fatto quasi un alleato. La sua calma non si lascia scuotere dal rumore, anzi sembra assorbirne l’energia. Per Musetti, invece, la prima volta è stata inevitabilmente più complessa: il palcoscenico più grande del mondo non perdona chi non ci è abituato.
Il risultato del derby è stato chiaro, e lo stesso Lorenzo lo ha riconosciuto: Jannik ha vinto perché è più forte, ma la cronaca tecnica non basta a spiegare il contesto. Dentro quel punteggio c’è anche la differenza di abitudine, di confidenza con uno stadio che può spaventare quanto incantare.

Tra fascino e imponenza

Alla fine, resta la suggestione di due luoghi simbolo che raccontano l’anima del tennis moderno: il Centre Court come cattedrale del silenzio, l’Arthur Ashe come tempio del brusio. Wimbledon offre raccoglimento, New York regala festa, uno protegge, l’altro travolge.
E forse è proprio in questo contrasto che vive il fascino di questo sport: il rito antico dell’erba che sopravvive immutato, e lo show moderno che accoglie la città e i suoi rumori dentro il campo. Per chi gioca, come per chi assiste, è un’esperienza che va oltre il punteggio.
Sinner lo sa, e per questo sembra sempre più a suo agio. Musetti lo ha scoperto, e dovrà tornarci per imparare a gestire quel brusio che non smette mai. Perché il tennis non è soltanto colpi e tattiche: è anche palco, atmosfera, cornice. E tra il silenzio di Wimbledon e il rumore di New York passa gran parte della magia che fa innamorare di questo sport.

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