Hubert Hurkacz, il discreto silenzio di un violino tornato a suonare
Non è il favorito del pubblico. Non è l’uomo copertina. Non è neppure quello che si riconosce al primo sguardo, se lo incontri fuori dal campo. Hubert Hurkacz, detto Hubi, si confonde. Ha il passo lungo, il viso quieto, la voce acuta. Se fosse uno strumento sarebbe un vecchio violino, uno di quelli che risuonano con classe, ma alle volte danno un acuto silenzio.
Eppure, dentro quel silenzio, cova qualcosa, qualcosa che a Roma si è visto, perché a volte, per tornare a respirare, basta un tie-break vinto. O due. A patto che l’avversario non sia uno qualunque, ma un ragazzino con le molle nei polpacci, Jakub Mensik, classe 2005, 1 metro e 93, faccia da scolaro timido con racchetta assassina, di quelli che fanno rumore, ma ancora senza farlo apposta.
E allora serve testa e serve tempo. Serve la migliore versione di Hubi Hurkacz. Il risultato, nudo e crudo, è 7-6(5), 4-6, 7-6(5), con due ore e cinquantanove minuti sotto il sole e le nuvole di maggio romano. La Super Tennis arena piena, ma non urlante, perché Hurkacz non chiama al boato. Chiama, semmai, all’attenzione ad uno sguardo più profondo.
Perché Hubert Hurkacz, 28enne polacco, non è più una promessa. È uno che ha già fatto vedere il suo picco: il Masters 1000 di Miami vinto nel 2021, Halle nel 2022, il titolo a Shanghai nel 2023. Uno che, quando serve bene, e quasi sempre serve bene, fa sembrare che il tennis sia facile, eppure, da ottobre in poi, qualcosa si è inceppato.
Una serie di risultati che hanno fatto perdere il ritmo e forse anche un po’ di fiducia: Cincinnati e Montreal le ultime volte in un quarto di finale di un Masters 1000. Era il 2024, ancora estate. Poi l’inverno, non solo climatico. Da Melbourne a Madrid, passando per Indian Wells, Hurkacz ha lasciato per strada più dubbi che certezze. Troppi errori, troppa fretta. E nel tennis di oggi, la fretta è l’anticamera della fine.
A Roma, invece, è sembrato voler fare un passo indietro. O meglio: di lato. Ha tolto un po’ di potenza, ha aggiunto pazienza; ha atteso. Ha servito come sa: 19 gli ace con Mensik, ma soprattutto, ha stretto i denti quando serviva. I due tie-break lo raccontano: pochi errori, un paio di colpi da campione, una compostezza quasi scultorea.
Ecco, Hurkacz ha qualcosa di marmoreo, come le statue che circondano con discrezione il Foro Italico: come loro non è freddo, è composto, il che, in uno sport dove le espressioni contano (e vendono), è quasi un gesto rivoluzionario. Non urla, non rompe racchette, non cerca la telecamera, cerca, semmai, il suo equilibrio che a Roma sembra avere ritrovato. Magari, non tutto, certo, ma abbastanza per tornare a sorridere senza forzarsi.
I quarti di finale al Foro sono l’ultimo tassello mancante di una collezione, quella dei nove Master 1000. Un risultato che dice tanto e poco, come tutte le collezioni, serve più alla memoria che all’ambizione, ma a trent’anni meno due, fa bene ricordarsi di cosa si è capaci.
Il campo, nella partita contro Mensik, è stato il teatro di un dialogo fra generazioni. Da una parte l’esperienza silenziosa di Hurkacz, dall’altra la fame esplosiva di Mensik, che a 18 anni ha già messo in fila nomi pesanti. Il ceco corre, picchia, rischia, ma paga l’inesperienza. Hurkacz invece non ha accelerazioni violente, ma manovre pazienti. È come uno scacchista con il rovescio, che aspetta la mossa sbagliata dell’avversario.
E poi c’è il pubblico romano, che si accorge un po’ alla volta di star assistendo a una partita vera, combattuta, forse più bella di altre piene di effetti speciali. Ci sono i silenzi, i punti lunghi, la tensione che si taglia col coltello. E alla fine, quando Hurkacz chiude con un ace centrale, c’è un applauso pieno. Non esplosivo, ma sincero. Come lui.
Cosa aspettarsi adesso? Dipende da quanto durerà questa quiete ritrovata. Perché Hurkacz non è uno da exploit estemporanei. Quando gioca bene, lo fa per settimane. Ma quando si incarta, ci mette tempo a uscirne. Roma, in questo, può essere il bivio. I quarti di finale lo metteranno davanti a un altro esame, forse più duro, ma già averci messo piede è un risultato.
In un mondo che corre, dove i giovani arrivano e spingono, Hurkacz è un promemoria. Non tutto deve essere rumore, non tutto deve essere velocità. C’è ancora spazio, nel tennis, per chi cerca l’armonia più che l’urlo, per chi non è nato per il palcoscenico, ma lo occupa con dignità, e magari, ogni tanto, con un ace di quelli che non si vedono neppure partire.