Alcaraz: “A Miami ho toccato il fondo. Sinner? Ognuno ha il proprio percorso”
Quando Carlos Alcaraz si racconta, lo fa con quella combinazione di sincerità disarmante e maturità sorprendente, segno di una maturità conquistata anche fuori dal campo. Per essere un campione a tutto tondo nello sport di oggi, saper comunicare e farlo nel modo corretto, è importante tanto quanto uno schema tattica durante il match: puoi avere il miglior dritto del circuito ma se non lo inserisci in un contesto di gioco perdi tanto; è così anche fuori dal campo.
In questi giorni in cui Barcellona lo ha nuovamente riabbracciato al Real Club de Tenis, il quotidiano Marca ha avuto modo di intervistarlo come da tanto tempo nessuno faceva con il murciano. L’occasione è perfetta: il rientro nel torneo che ha rappresentato uno snodo fondamentale nella sua crescita e il lancio della docuserie Netflix Carlos Alcaraz: A mi manera, che promette di mostrarci il volto più intimo del ragazzo di El Palmar. Con Rafael Nadal ormai lontano dalle luci del circuito, è Carlitos il volto simbolo del tennis spagnolo, non solo per quello che fa con la racchetta.
Le telecamere, la casa e un trofeo particolare
Alcaraz è abituato a vivere circondato dalle telecamere nei tornei, ma la presenza costante della troupe di Morena Films per nove mesi ha portato la questione su un altro piano. “Nei tornei ci sono abituato, ma ritrovarmi le camere anche a casa è stato diverso,” ha spiegato. “All’inizio era strano, poi è diventato tutto molto più naturale. Il team è stato fantastico con me e con la mia famiglia. Ero più preoccupato per loro che per me”.
Quello che emerge dalla docuserie, racconta con soddisfazione, è il Carlos più autentico. “Non interpreto nessun personaggio, ma nella vita privata si vede davvero chi sono. Mi ha colpito anche sentire come cambia il mio accento quando sono con i miei cari: esce tutto il murciano. È stato bello anche per me rivedermi così”. Una delle scene più iconiche? “Quando guardo il trofeo di Wimbledon e leggo i nomi. Anche se poi non si vede nel documentario, dico: ‘E qui ci sono io. Che cavolo ci faccio lì in mezzo a tutte quelle leggende?’”.
Il fondo toccato e l’idea di fermarsi
Non è stato tutto rose e fiori, nemmeno per uno che in campo sembra a tratti invincibile. “A Indian Wells mi sentivo bene, ma la sconfitta con Draper mi ha fatto male. Poi è arrivato Miami e quella con Goffin è stata la goccia. Lì ho toccato il fondo”. Carlos non nasconde di aver pensato a una pausa, anche lunga. “Ti vengono in mente mille idee: fermarti una settimana, un mese, prendere ferie, continuare ad allenarti… Alla fine mi sono preso qualche giorno per riflettere. Mi è servito tanto”. Il viaggio in Messico è stato fondamentale. “Ero in vacanza ma volevo allenarmi. Chiedevo al team di mandarmi esercizi. Gli ultimi giorni dicevo ai miei: ‘Voglio tornare a casa’. Avevo bisogno di ricominciare.” E così è stato. La vittoria a Montecarlo è nata anche da lì.
Pressione da numero 1, imparare a lasciarla andare
La pressione per la vetta del ranking? Presente e ingombrante. “Dopo ogni partita qualcuno mi ricordava che, con Sinner fermo, potevo diventare numero uno. È normale, ma ti entra nella testa anche se provi a ignorarla”. Ora, però, Alcaraz ha cambiato approccio: “Ho capito cosa conta davvero: giocare bene, divertirmi. Il ranking adesso non è la mia priorità”. E qui arriva un’ammissione che sorprende: “Gestivo meglio la pressione a 19 anni. All’inizio tutto è nuovo e vuoi dimostrare. Quella è una pressione positiva. Ora c’è l’ansia di non deludere, di non essere criticato. È molto più dura”.
Ma non c’è spazio per i rimpianti: “Se perdo, voglio almeno uscire dal campo sapendo che ho fatto tutto il possibile e che ho giocato con passione. Questo è ciò che conta”.
Alcaraz su Sinner: rispetto profondo e rivalità sana
Se oggi il tennis mondiale vive il suo equilibrio attorno a un duello, quello è senz’altro tra lui e Jannik Sinner. Un’alternanza di successi, un rispetto reciproco, e una consapevolezza sempre più chiara: l’uno spinge l’altro a migliorarsi.
“L’anno scorso avevo detto che Sinner sarebbe finito numero uno, e alla fine ci è arrivato davvero. Non era un pronostico a caso. Jannik è un giocatore straordinario, lavora tantissimo, è costante, è lì perché se lo merita,” ha detto Carlos. “Quest’anno non saprei fare un pronostico. Stiamo tutti lottando, ma lui è quello che ha fatto meglio finora. E va riconosciuto. Ci stimoliamo a vicenda. Con lui è sempre una bella lotta, e il bello è che, anche se perdi, impari. E questo vale anche per lui, credo. La rivalità con Sinner è diversa da tutte le altre: non c’è cattiveria, c’è solo tennis”.
Alcaraz non cerca scorciatoie: “Io cerco di non pensare troppo al ranking, ma quando vedi che uno come Jannik continua a vincere, è normale che un po’ ti venga la voglia di rispondere. Però cerco di trasformarla in motivazione, non in ossessione”.
E chi sarà il numero 1 a fine 2025? “Non lo so. Ma una cosa è certa: voglio uscire dal campo sentendo che sto facendo le cose nel modo giusto. Se poi il numero 1 arriva, benissimo. Se no, pazienza. Sinner sta facendo cose straordinarie e gliele riconosco. Ma io ho il mio percorso, il mio stile. E voglio restare fedele a quello”.
Nadal e l’impossibile
A chi gli chiede se sogni ancora di eguagliare i 14 Roland Garros vinti da Nadal, Alcaraz risponde senza esitazioni: “No, ora lo vedo impossibile. Quello che ha fatto Rafa sulla terra è la cosa più grande della storia dello sport. Non solo del tennis. Vincere 14 volte a Parigi, 11 volte a Montecarlo… sono numeri irreali. Solo chi non è di questo mondo può riuscirci”.
“Rafa è sempre stato il mio riferimento. Ma so bene che non potrò mai fare quello che ha fatto lui. Lui è Rafa. Io voglio essere Carlos. Non lo dico per falsa modestia, è la verità”.
Il servizio, i premi e la battaglia per equità
Sulla battuta, Carlitos è chiaro: si può migliorare, ma senza ossessioni. “Sulla terra non è fondamentale. A Montecarlo ho sofferto, ma sapevo che potevo recuperare i break. Con il tempo il servizio crescerà”.
E infine, un tema che coinvolge anche i colleghi del top 20: la giusta distribuzione dei premi. “Il tennis è uno sport ben pagato, ma le percentuali di divisione devono essere più eque. Se noi diamo spettacolo e la gente paga per vederci, i premi devono riflettere quel valore. Per questo abbiamo firmato la lettera ai Grand Slam”.
A su manera, come suggerisce il titolo della serie, è la sua storia la storia di un ragazzo autentico, sensazioni proprie dei primi due giocatori al mondo e forse è proprio in questa autenticità, in questa voglia di restare sempre “quel ragazzo di casa”, che risiede la vera magia del loro tennis.