Jakub Mensik: l’ultimo gioiello di una scuola che ha fatto la storia del tennis
Da quando la Cechia è un Paese indipendente, dunque dal 1993, sono state 53 le vittorie di giocatori del Paese in singolare sul circuito ATP. Dalla notte italiana tra domenica e lunedì (anzi, l’alba, a voler essere pignoli) sono 54, perché Jakub Mensik, classe 2005, ha aggiunto il proprio nome a quelli di Tomas Berdych, Petr Korda Jiri Novak, Radek Stepanek, Karel Novacek, Slava Dosedel, Bohdan Uhlirach, Lukas Rosol, Jiri Vesely, Jiri Lehecka, Michal Tabara, Jan Vacek e Tomas Machac nel novero dei connazionali in grado di prevalere nel tennis che conta. Di questi 13 nomi, alcuni hanno fatto la storia, altri meno, ma tutti hanno almeno un titolo alle spalle.
Per Mensik, va detto subito, il primato è di quelli eccezionali: aver vinto un 1000 come proprio primo torneo. Dalla comparsa di tali tornei, nel 1990, ci erano riusciti solo in tre: lo spagnolo Roberto Carretero ad Amburgo 1996, il caso più famoso della storia tennistica di one hit wonder, l’americano Chris Woodruff a Montreal 1997 e lo spagnolo Alberto Portas ad Amburgo 2001. A questi va aggiunto Gustavo Kuerten al Roland Garros 1997, primo torneo in assoluto vinto dal brasiliano, ma con Guga siamo davvero su un altro pianeta rispetto ai tre citati. E, va detto, stiamo parlando del primo teenager dai tempi di Michael Chang a vincere un 1000 partendo da fuori dalla top 20. Il tutto avendo Djokovic come idolo, e negandogli il trofeo numero 100. In sostanza, ha tutta la personalità di questo mondo per poter ambire a risultati importanti nel tempo.
Il capitolo del classe 2005 è solo l’ultimo, in ordine di tempo, di una scuola che va ben al di là della Cechia come Paese indipendente. Bisogna, infatti, prendere in considerazione tutto lo storico dei tempi della Cecoslovacchia per capire che non siamo di fronte a un caso isolato, ma al ritorno in auge di un movimento tennistico che negli ultimi anni ha saputo ritrovare tre uomini (Mensik, Lehecka e Machac) in grado di rinverdire qualcosa di cui le origini vanno cercate indietro nel tempo.
In principio fu Roderich Menzel, nato a Liberec (allora sotto dominio austroungarico), fino al 1938 primo grande nome di spicco del tennis di questi territori, prima che se lo prendesse la Germania nazista in seguito all’annessione dei Sudeti. Non vinse mai uno Slam, ma è tuttora il recordman di singolari vinti (40-12); di quei tempi si ricordano un paio di grandi partite al quinto set contro Gottfried von Cramm, sul quale andrebbe scritta una storia a parte.
Vennero poi la guerra, il ritorno alla Cecoslovacchia in quanto tale e poi Jaroslav Drobny. Che, però, fu il primo di una storia diversa, particolare: quella di un uomo che fino al 1950 ha giocato per il suo Paese e poi, dal 1950, è diventato egiziano e dal 1959 britannico. Questo perché, proprio prima di raggiungere i suoi più grandi successi (tre Slam, tra cui Wimbledon 1954), è fuggito dal Paese insieme al compagno di doppio in Coppa Davis Vladimir Cernik. Lo fece a Gstaad, disobbedendo a un ordine che arrivava direttamente dall’Unione Sovietica, che era quello di non giocare. Non si sentiva libero di viaggiare, e così l’atleta più popolare di Cecoslovacchia insieme a Emil Zatopek divenne apolide per un anno, finché non fu l’Egitto a dargli una patria. E dire che Drobny era stato anche un ottimo giocatore di hockey, fino a sfiorare la NHL, rifiutata perché voleva continuare con il tennis. Si può dire che proprio male non fece. E, sulla questione delle fughe, ci torneremo.
Intanto, però, vale la pena di rimarcare un’altra storia. Quella di Jan Kodes, tra i migliori terraioli degli Anni ’60 e soprattutto ’70 tanto da vincere il Roland Garros per due volte, ma anche e soprattutto una delle edizioni di Wimbledon più famose di tutti i tempi, quella del 1973, dello storico boicottaggio causato dalla vicenda di Niki Pilic. Kodes e altri dell’Est non potevano rifiutarsi di giocare, lui riuscì a battere il sovietico Alex Metreveli in finale e a portare a casa quella particolarissima edizione in cui furono infilati fiumi di lucky loser. Vero è che lui, lontano dalla terra, forte ci andava comunque: semifinale a Wimbledon nel 1972 e 1974, finale agli US Open nel 1971 e 1973 (si giocava ancora sull’erba).
E poi venne la generazione di Ivan Lendl (e del suo coevo Tomas Smid, numero 1 in doppio). Lo hanno chiamato in tutti i modi, Ivan il Terribile, Terminator, ma una sola cosa resta: debuttò negli anni di Borg, duellò con McEnroe e Connors, ebbe a che fare con Becker, Edberg e Wilander e fu in grado di tener testa a tutti questi, chiudendo nell’era di Sampras e Agassi da loro connazionale fin dal 1992, perché nel frattempo la federazione cecoslovacca lo aveva considerato disertore illegale. Inventò un tennis aggressivo da fondo che fu un’evoluzione di tutti gli Anni ’70, ci vinse otto Slam e rimase 270 settimane al numero 1 del mondo. Non per caso è definito il padre del tennis moderno.
Dopo Lendl qualcuno in grado di vincere uno Slam è venuto: Petr Korda, agli Australian Open 1998 (ma fu sospeso dall’antidoping sei mesi dopo), nelle fasi finali di una carriera fino ad allora comunque di un validissimo livello e che lo ha portato fino al numero 2 del mondo. Poi i contemporanei Karel Novacek e Slava Dosedel, fino a Jiri Novak, il migliore a cavallo tra i due millenni tanto da portare a casa sette titoli. Subito dopo arrivò l’accoppiata Tomas Berdych-Radek Stepanek. Non potevano essere più diversi: gran servizio e gioco da fondo per l’uno, finalista a Wimbledon 2010, espressione del gioco d’attacco proteso verso la rete il secondo, e hanno entrambi raggiunto vette molto alte: numero 4 l’uno, numero 8 l’altro. Il tutto fino a quella che è la generazione attuale.
In tutto questo, però, c’è un capitolo di cui abbiamo finora detto poco. Già, perché da cinquant’anni abbondanti la Cechia produce giocatrici di enorme livello. In sostanza, c’è una linea di continuità che nel femminile non finisce mai dai tempi di Martina Navratilova, anche se lei è storicamente legata agli Stati Uniti negli albi d’oro. Questo perché, nel 1975, chiese asilo politico negli States per non avere a che fare con quel regime comunista che, ancor più dopo la Primavera di Praga, tenero non era. Tant’è: parliamo di quella che, per buona misura, è tra le più grandi della storia, che si è accompagnata a Chris Evert in una leggendaria rivalità da 80 partite. Per lei parlano in numeri: 59 titoli dello Slam suddivisi tra i 18 in singolare, i 31 in doppio e i 10 in doppio misto.
Attorno a lei si creò un lotto di giocatrici importante. Hana Mandlikova, che tre Slam è riuscita a vincerli, oltre a giungere al numero 3 del mondo, ed è stata nelle prime 50 per 11 stagioni di fila. E c’era anche Helena Sukova, cha ha completato il Career Grand Slam in doppio giocando quattro finali Slam in singolare e arrivando al numero 4 del mondo, continuando poi anche in ruoli dirigenziali nel tennis e poi nel suo ulteriore campo, la psicologia. Una storia di famiglia, la sua, visto che la madre Vera Sukova fu finalista a Wimbledon 1962 e morì giovane, nel 1982, a cinquant’anni. Uno in più di quello che aveva Jana Novotna nel 2017, quando ci lasciò assieme a tutte le memorie degli Anni ’90 e di quel Wimbledon 1998 che, dopo tanta rincorsa, portò finalmente a casa con un serve&volley per il quale è ancora oggi giustamente ricordata.
Ma il tempo delle ceche ha avuto una continuazione, e anzi un’autentica esplosione, nel secondo decennio del nuovo millennio. Petra Kvitova, che solo per un caso sfortunatissimo non è mai diventata numero 1 pur con due Wimbledon all’attivo, e Karolina Pliskova, che invece leader del ranking WTA è diventata, anche se solo per otto settimane, pur mettendo insieme una validissima carriera. In finale Slam, al Roalnd Garros, ci è arrivata anche Lucie Safarova, poco prima che una nuova generazione, da quella delle sei Fed Cup tra 2011 e 2018, arrivasse. Quella di Marketa Vondrousova, Karolina Muchova e Barbora Krejcikova. Che da Jana Novotna era stata allenata, e che ha sempre ricordato anche con le lacrime agli occhi, soprattutto dopo aver vinto i Championships.