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Lost in the echo: c’era una volta Stefanos Tsitsipas

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Che le cose non stessero girando più nel verso giusto, probabilmente Stefanos Tsitsipas avrebbe dovuto già capirlo la scorsa estate, quando non vederlo più in top 10 sembrava già qualcosa di normale, di accettabile. Come se i 5 anni trascorsi nell’élite del tennis, a giocare costantemente per 1000 e Slam, a qualificarsi per le ATP Finals, appartenessero a qualcun altro. O peggio, ad un’altra vita. Perché è innegabile, ci sono un prima e un dopo ben definiti nella carriera di quello che avrebbe dovuto essere un nuovo vincitore Slam, dominatore del circuito, idolo del pubblico. Non si è verificata finora (e mai si verificherà, difficile essere smentiti) nessuna di queste evenienze. Tsitsipas si è dimostrato negli anni spesso poco più che un ottimo teorico, bravo a trovare sempre buone scusanti.

Quando sono arrivato nel tour nel 2018”, aveva detto dopo l’uscita al primo turno in Australia per mano di Michelsen, “il gioco era molto diverso da ora, non era così fisico. Ho avuto delle vittorie contro Novak, e sentivo di star giocando bene, senza aver bisogno di cacciar fuori la versione più estrema di me stesso in quegli incontri. Anni fa sentivo che il gioco fosse in generale meno potente, comunque fisico, ma non così tanto. Sento che la potenza abbia ormai preso il sopravvento, dunque chiunque può colpire in maniera dura. Essendo anche preciso si ha l’ultima combinazione di giocatore”.

Mere riflessioni filosofiche? Tentativi di trovare una giustificazione arrampicandosi sugli specchi? Probabilmente la verità sta nel mezzo. È infatti indubbio che con il passare degli anni il tennis si basi sempre più sulla potenza e l’intensità da fondo che sul tocco. Ma sembra solo la ricerca di un alibi. Perché checché voglia dire, la sconfitta subita contro un Medjedovic zoppicante, quasi incapace di reggersi in piedi, non può essere motivata, né giustificata. Anche perché Tsitsipas contro il serbo ha giocato una buona partita. Certo non eccezionale, ma buona, al livello di mediocrità che ha manifestato da ormai quasi due anni a questa parte.

L’aura…di un tempo

E, probabilmente, la cosa più preoccupante è proprio questa: la consapevolezza che ormai agli altri “basti” giocare bene per batterlo, aver perso quell’aura che comportava quantomeno un suo piccolo contributo nelle sconfitte. Si è, rifacendoci al titolo scelto, perso nell’eco. Lost in the echo è una delle più celebri canzoni dei Linkin Park, che parla di promesse rotte, di sconfitte e delusioni, persesi nel caos della vita. Parafrasando e trasportandola in un contesto più leggero come quello tennistico, si può paragonarla alla situazione che sta vivendo il greco. Numero 3 al mondo, finalista Slam, sembra ormai diventato l’ombra di sé stesso, incapace di imparare dai propri errori, indolente e quasi svogliato nel cercare un modo di migliorare, di sgrezzare i propri limiti. E mentre gli inverni sulle spalle si accumulano, il rovescio è un problema sempre più imponente, un vero e proprio handicap.

E a poco servono le riflessioni buttate qua e là (“Sto giocando meglio di prima”), non sono abbastanza per mascherare una realtà che non lascia più scampo a mezze misure: la carriera di Tsitsipas è giunta a un bivio. Non perdeva in due Slam di fila al primo turno dal 2019, quando si arrese a Wimbledon contro Fabbiano e allo US Open contro Rublev. Ma era appena 21enne, stava imparando a gestire la pressione sulle sue spalle da giovincello, non era pronto.

Oggi dovrebbe esserlo, eppure i risultati latitano. Rimarrà in top 15 nei prossimi mesi, fino a Montecarlo non ha molto da difendere. Ma quei 1000 punti sono una cambiale che il greco sceso in campo in questi primi due mesi di 2025 faticherà a difendere. Perché se il gioco in fin dei conti a tratti c’è stato, a mancare sono state la grinta, la voglia di riprendersi l’incontro e di ricordare ai giovani (Michelsen, Bellucci, Medjedovic) chi sia Stefanos Tsitsipas.

Lei non sa chi ero io

Proprio come parole perse nell’eco, ricordi di un passato neanche così lontano (due anni fa faceva finale in Australia) ma che sembra appartenere ad un’era geologica diversa. Sarà stata colpa di un padre invadente, di un po’ di eccessiva e a tratti boriosa superficialità nel non lavorare sui propri difetti, ma Stefanos non ha mai compiuto il passo definitivo da gran giocatore a campione.

Molte speranze sono rimaste in quel pomeriggio di giugno sulla terra parigina, questo è certo, ma usare la finale persa da 2-0 contro Djokovic come scudo è forse un po’ poco. “Punto al n.1, lavoro in quel senso. Non sono lontano”; tante volte nel corso degli anni Tsitsipas ha pronunciato queste parole, ultima delle quali a Roma qualche mese fa…per poi perdere ai quarti di finale contro Jarry dopo aver vinto il primo set. E oggi suonano un po’ paradossali, se non patetiche. Forse sarà un eterno incompiuto, il rischio è che passi alla storia come un ragazzo dalle grandi dichiarazioni ma pochi fatti.

Non raggiunge una semifinale dallo scorso luglio, a Gstaad, e sul cemento gli manca addirittura dall’estate 2023, quando vinse il titolo a Los Cabos. Se escludiamo il periodo COVID-19, e dunque i tornei cancellati e rinviati, un digiuno così lungo non gli capitava da inizio carriera. Per la precisione dai mesi tra ottobre 2017 e aprile 2018 che intercorsero tra le sue prime due semifinali a livello ATP, Anversa e Barcellona.

Sono passati 7 anni ma reali progressi, escludendo stagioni dorate come quelle 2021-22, o il titolo di Maestro all’esordio nel 2019, non se ne sono visti. È troppo facile dire che se giocasse il rovescio come il servizio e il dritto sarebbe costantemente tra i primi e correrebbe per gli Slam. È troppo semplicistico dire che sì, avrebbe dovuto cacciare prima il padre e cercare un “vero” coach per compiere il salto di qualità. Tutte osservazioni corrette, ci mancherebbe.

C’è ancora speranza?

Ma la verità, anche se difficilmente lo ammetterà, è più cruda: il greco si è crogiolato in una sorta di comfort zone. Nella convinzione che prima o poi il momento sarebbe arrivato. E che in fondo doveva solo aspettare, come se gli fosse dovuto. Come se l’eleganza in campo, la precocità, fossero il preludio a qualcosa di ancor più grande. Ci vogliono umiltà e consapevolezza per diventare grandi e rimanere nella leggenda. Per vincere i tornei più importanti e battere i più forti bisogna saper riconoscere i propri limiti, capire dove lavorare, altrimenti il rischio è di venire sopraffatti. I numeri sono impietosi: dall’inizio del 2023 è 4-15 contro i top 10, escludendo Montecarlo 2024 addirittura 1-15. Fatti, non chiacchiere, di una serenità e di stimoli persi. Forse per sempre.

Quella tranquillità e quella spregiudicata ma positiva arroganza che gli hanno permesso di battere i Big 3 prima dei 21 anni sono un lontano ricordo. La pressione di essere un nome che sposta gli equilibri, che gli altri giocatori ambiscono a battere, forse era troppa per le spalle del greco. E probabilmente lui per primo, per un periodo, si è aspettato più del dovuto. Dovrà ripartire, con umiltà, e abbassare le prospettive.

L’età non è ancora giusta per dire addio alla top 10, o ai sogni di vincere qualcosa di importante. Ma lui per primo, per tornare ad essere Stefanos Tsitsipas, e non perdersi nell’eco delle promesse e dei ricordi, dovrà fare “mea culpa”. Il destino è nelle sue mani (mano, se migliorerà il rovescio), dovrà imparare a lasciarlo andare, e ad accettare il futuro per come verrà. “In queste promesse infrante, nel profondo ogni parola si perde nell’eco. Quindi riesco a capire un’ultima bugia. Questa volta, finalmente, ti ho lasciato andare!“.

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