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Come un atleta convive (e vince) con la malattia di Crohn: la storia di Alexandre Muller

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Se l’è davvero sudato il primo titolo della sua carriera, a Hong-Kong; come lui nessuno mai ha tribolato per alzare la prima coppa della vita, nessuno mai come Alexandre Muller, nato il primo febbraio del 1997 a Poissy. Prima di lui solo Sascha Bublik a Montpellier nel 2024 e Arthur Ashe alle WCT Finals nel 1975 erano riusciti a vincere un torneo rimontando in tutti i match un set di svantaggio. Alex si è messo con pazienza e tenacia sin dal primo turno e soprattutto quando Miomir Kecmanovic nella battaglia successiva ha servito per il match nel secondo set e ha ceduto il secondo parziale al tie-break dopo essere stato per quattro volte a due punti dalla vittoria.

Muller ha dovuto annullare due matchpoint nello jeu decisif della frazione decisiva per avere ragione del serbo; tre ore e mezza di tenzone nel giorno di Capodanno, che si aggiungono alle due ore e mezza necessarie per superare Munar in semifinale, il giustiziere di Musetti, e che, sommate alla durata degli altri tre match fanno quasi dodici ore trascorse sul court.

Se l’è davvero sudato il primo titolo della sua carriera. E non appena Kei Nishikori ha messo in rete l’ultimo rovescio della finale, Alex Muller ha forse pensato che penare per arrivare al tanto agognato trofeo non fosse altro che il riflesso delle tribolazioni che vive per poter essere all’altezza del circuito ATP, per poter competere ad alto livello con costanza. L’atleta francese ne parla all’Equipe, che pubblica un’intervista in cui il protagonista principale non è il tennis, ma la malattia di Crohn, un morbo infiammatorio cronico che colpisce la parete di tutto il tratto gastrointestinale.

La chiacchierata risale al dicembre 2023, un incontro sulle alture intorno a Cannes e comincia proprio sulle riflessioni di un atleta che deve convivere con questa malattia: “senza questo problema avrei potuto senz’altro ottenere di più dalla mia carriera, ma è così. Quando devo affrontare una seduta di allenamento o di potenziamento muscolare, il primo pensiero va sempre al mio ventre; guardo sempre dove è la toilette.

Prima di un match ci vado anche cinque o sei volte e questo mi causa un piccolo svantaggio in termini di energie, mentre dopo un incontro di tre ore se bevo più di quattro sorsi d’acqua so che a breve avrò come l’impressione di dover vomitare. In generale rischio di perdere peso con estrema facilità. Non posso bere troppo – prosegue Muller – perché non digerisco bene, soffro di reflusso. Devo idratarmi, ma se esagero mi viene il singhiozzo come se avessi bevuto una birra, e faccio fatica a muovermi. Al controllo antidoping mi dicono sempre che la mia non è pipì, ma un concentrato di tutto. ‘Tu non hai più nulla dentro’ mi dicono. Spesso dopo la partita sono pieno di contratture”.

In realtà durante lo sforzo non c’è bisogno della sosta fisiologica: “non mi dà alcun sollievo durante la fatica; prima di scendere in campo però anche riscaldarmi può essere complicato. A volte devo smettere subito o non iniziare nemmeno. Fuori dal campo, quando sono in vacanza, vado più spesso in bagno ma vivo normalmente; far vita da atleta, questo è duro. Per alcuni lasciare il tennis significa smettere di viaggiare, per me significherebbe smettere di fare i conti con il mio ventre. Ogni tanto ci penso; per me è cosa normale andare in bagno e vedere del sangue”.

Una prima diagnosi, seppur non precisa, risale all’adolescenza, intorno ai tredici anni: “ero con i miei genitori ad Aix e Philippe Pech, l’allenatore, li chiamò per dir loro che era meglio che smettessi. Non volevano puntare su un ragazzino malato. Per me fu una mazzata ma cercai di andare avanti; allora io mi vergognavo a confessare che dovevo scappare in bagno di continuo. Minimizzai per un anno ma durante un fine settimana a casa andai alla toilette per almeno trenta volte. I miei mi obbligarono a fare degli esami e mi fu diagnosticata una rettocolite emorragica. Solo tre anni fa, dopo una colonscopia, il quadro clinico fu finalmente corretto”.

La diagnosi finale ha permesso ad Alex di iniziare cure più mirate ed efficaci: “devo farmi delle iniezioni, una ogni dieci giorni; se non la faccio rischio una crisi e finisco di corsa all’ospedale. Mi è capitato per due volte e in entrambi i casi ne sono uscito con una cura da cavallo di cortisone per due mesi; nel primo caso però mi ha fermato la crescita. Nonostante ciò, non ho mai chiesto di poter assumere cortisone, che è una sostanza dopante, per scopi terapeutici: è un inferno dal punto di vista burocratico. Se lo prendo sospendo l’attività agonistica, anche perché cambiare antiinfiammatorio potrebbe innescare una crisi”.

Come sempre in questi casi l’handicap impartisce una solida educazione ed evidenzia le capacità di sopportazione dell’individuo. Alex lo sa e vorrebbe dire a chi si lamenta o si lascia andare durante un incontro di provare a gareggiare con un intestino malato come il suo. Ma forse non è necessario; in fondo il suo fardello a suo modo lo aiuta ad apprezzare i momenti più belli della sua vita da atleta, indipendentemente da chi lo sta sfidando dall’altra parte della rete: “credo sia per questo che in campo sono assai calmo. È fastidioso certo, ma ci sono cose peggiori e ogni tanto mi dico che sto facendo qualcosa di davvero forte”.

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