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Sinner a cuore aperto: “Spero che la gente mi segua al di là dei risultati. Voglio essere una fonte d’ispirazione”

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Era marzo quando Quentin Moynet de L’Equipe ha incontrato Jannik Sinner per un’intervista. Il contesto era quello di Indian Wells, quando l’azzurro era ancora imbattuto nel 2024 dopo aver vinto l’Australian Open e anche il 500 di Rotterdam. In California arrivò poi la sconfitta in semifinale con Alcaraz, ma nelle settimane successive le cose non sono certo andate male. E così quell’intervista è diventata un’intervista con il numero uno del mondo, pubblicata a ridosso del primo Slam che Jannik giocherà guardando tutti dall’alto (esordio lunedì sul campo 1 per l’italiano). Un semplice modo di dire per esprimere la posizione in classifica e nel tabellone di Wimbledon del giocatore italiano ma che di certo non ne rispecchia l’atteggiamento. La voglia di vincere è una cosa, l’arroganza o la presunzione tutt’altra. Se ce ne fosse bisogno, lo conferma anche il ritratto di Sinner che esce da quest’intervista, capace di sondare temi anche inediti come il rapporto con il fratello Mark e alcune esperienze adolescenziali.

Come titolo L’Equipe ha scelto questa dichiarazione di Jannik: “Non mi interessa essere famoso”. E il discorso dell’altoatesino merita di essere approfondito: “Spero che le persone non mi vedano solo per i miei risultati sportivi, ma anche per quello che sono come persona. In Italia, in particolare, sempre più persone mi riconoscono ed è bello. Ma non mi interessa essere conosciuto per il gusto di esserlo. Voglio essere una fonte di ispirazione, voglio ispirare sempre più giovani a prendere in mano una racchetta e ad andare a giocare, perché il tennis è un grande sport. Più bambini giocano, meglio sarà per il futuro del tennis italiano”.

Dichiarazioni che trovano un’ulteriore declinazione poco più avanti, a proposito dei social: “So che, indipendentemente dal fatto che mi seguano milioni di persone o solo qualche decina, avrò sempre attorno le poche persone che contano veramente e che amo. Cosa c’è di più importante che essere circondato dalla mia famiglia, che è orgogliosa di me, e dai miei amici, che mi conoscono da quando ero bambino? Di tutto il resto si può fare a meno, che tu sia un tennista o meno”.

Tra quelle persone “che contano veramente” c’è anche e soprattutto il fratello Mark. Non solo fratello, però, ma migliore amico per Jannik: “Siamo molto, molto legati. Tuo fratello è il tuo primo migliore amico nella vita. Siamo cresciuti insieme nella stessa casa, abbiamo dormito nella stessa stanza. Non ci siamo mai allontanati l’uno dall’altro. Quando qualcosa va storto, c’è solo una cosa che so per certo: posso andare da lui e mi dirà sempre la verità. È sempre a lui che mi rivolgo quando ho un problema. Nessuno mi conosce meglio di mio fratello. Abbiamo un legame davvero speciale. È importante sapere di avere una persona così nella propria vita, soprattutto per me che viaggio molto e sono spesso fuori casa. Cerca di capire la mia vita e il mio lavoro. Lui ha una vita più normale, fa il pompiere e l’istruttore”.

Quello che invece si è sforzato di capire Jannik è l’Italia nei suoi aspetti più tradizionali, per forza di cose lontani da una zona di confine come la Pusteria: “All’inizio non è stato facile. Ero un po’ diverso dagli altri, sia in campo che fuori. Dalle mie parti si va a letto presto. Mentre la maggior parte degli italiani sta sveglia fino a tardi. Molte cose del genere. Quando sono andato nel sud Italia per allenarmi ho imparato lo “stile italiano”. Ma non ho mai cercato di cambiare per piacere a qualcuno. Ho fatto solo quello che mi faceva sentire più a mio agio. Cerco sempre di imparare ciò che funziona meglio per me, per il mio corpo e per le persone che mi circondano. Se le persone intorno a me mi dicono che le cose non vanno bene cerco di capire e adattarmi. Ma non cambierò solo perché un estraneo mi critica”.

Continuando a riavvolgere il nastro, Jannik ha poi raccontato gli anni della scuola a Bolzano, lontana quasi 150 chilometri dalla sua Sesto: “Mi alzavo alle 5 del mattino. Prendevo due treni e due autobus solo per arrivare, più di due ore per ogni tratta, e lo stesso per il ritorno. In totale, quasi quattro ore e mezza. Ma non mi sono mai lamentato e non ho mai voluto fermarmi. Faceva parte della mia formazione scolastica e i miei insegnanti mi hanno sempre aiutato a conciliare gli studi con il tennis. Inoltre, è stato lì che ho conosciuto il mio migliore amico. In generale, volevo imparare. Avevo buoni voti. Fortunatamente, i miei genitori vegliavano su di me. Approfittavo del lungo tragitto per fare i compiti: in quattro ore si possono fare molte cose”.

Non potevano comunque mancare nell’intervista alcuni temi di campo, a partire dalla gestione delle emozioni: “E’ qualcosa che si impara nel tempo. Quando ero più giovane, ero nervoso in campo. Non sempre capisci il motivo, ma poco a poco impari a conoscere te stesso. Giocando così tanto durante l’anno, è fondamentale conservare energia. Se fai 50 o 60 partite a stagione e ti lasci disturbare anche dalle piccole cose, sarà difficile essere al massimo il giorno successivo. Quando ho iniziato a capirmi meglio, a comprendere meglio il funzionamento del mio cervello, mi sono sentito migliorare sul campo. Ci sono momenti complicati da affrontare, ma una cosa è fondamentale: hai un avversario di fronte a te e se gli fornisci informazioni, potresti aiutarlo a migliorare il suo gioco. Cerco di restare impassibile anche quando le cose vanno male. Questo non ci impedisce di sostenerci con il mio team, di esultare dopo un punto, di coinvolgere il pubblico che è lì per godersi lo spettacolo. I tifosi possono essere un supporto prezioso quando incontri delle difficoltà, è importante saperli coinvolgere a tuo favore”.

Sinner ha poi spiegato il lavoro che svolge su un muscolo abbastanza particolare come il cervello, servendosi di programmi di allenamento e strumenti progettati per i piloti di Formula 1: “Si tratta di esercizi al computer. Per esempio: la parola ‘verde’ è scritta in un certo colore. Se è scritta in verde, bisogna premere “vero”, se è scritta in un altro colore, bisogna premere ‘falso’. Il più velocemente possibile. Gli esercizi vengono eseguiti indossando una fascia che calcola la parte di cervello che si sta utilizzando. Una persona media potrebbe avere gli stessi riflessi di un pilota di Formula 1, ma usando una parte più grande del suo cervello per farlo. I piloti lo fanno velocemente perché è naturale e totalmente automatico per il loro cervello. Su un campo da tennis è lo stesso: ‘in questa posizione devo fare questo, questo e questo’. Ma deve essere naturale. Sento davvero la differenza. I risultati dei test dicono che il cervello sta progredendo. È un muscolo come un altro, solo che non lo si non lo si sviluppa sollevando pesi”.

Infine l’ossessione per il suono della pallina, il termometro della fiducia di Jannik: “Quando provo le racchette, mi concentro sul rumore della palla. Non guardo nemmeno dove atterra. Se ho una buona sensazione rispetto al suono, allora è la racchetta giusta. Alcuni giocatori si concentrano sul controllo di palla che una determinata racchetta offre loro. Per me è tutta una questione di suono. Deve essere pulito, ma anche pesante. Non mi piace quando è ruvido, quando sfrega, come se graffiasse. Dopo di che, in una partita, la cosa più importante è scegliere il colpo giusto al momento giusto. Ma in allenamento l’obiettivo è ottenere un buon feeling. E per me, le sensazioni migliori coincidono con il giusto suono”.

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