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Tennis e stress: tanti viaggi, poco sonno e dipendenza da sforzo-

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In questi ultimi anni un sempre maggiore numero di giocatori e giocatrici di tennis ha ammesso di patire problemi psicologici di vario genere. Per molto tempo la spiegazione più gettonata è stata quella legata allo stress da competizione. Ma se ci fosse anche qualche altra concausa, connaturata alla specificità del tennis sia per ciò che riguarda l’attività del tour, sia per il tipo d’impegno fisico richiesto all’atleta? Senza la pretesa di dare spiegazioni definitive e valide per tutti, cerchiamo di capire se la vita del tennista è più o meno esposta, rispetto a quella di altri atleti di altissimo livello, a questo genere di disturbo.

Partiamo allora dalla storia, da alcuni tra i casi più eclatanti: era il 2019 quando Nick Kyrgios ha ammesso di problemi di salute mentale. Lo stesso è accaduto a Naomi Osaka. Musetti ha dichiarato di avere sofferto in più occasioni di attacchi di panico durante alcuni incontri. Andando più indietro, nella sua autobiografia “Open”, Andre Agassi non ha nascosto le sue debolezze e la ricerca di gratificazione nelle sostanze, nei momenti più difficili della carriera. Un’altra grande del tennis, Jennifer Capriati, ha dovuto combattere spesso contro i demoni di quello che – ai tempi – veniva definito in maniera grossolana “esaurimento nervoso”.

Eppure siamo abituati a pensare ai grandissimi del tennis come a dei maestri non solo di strategia e tattica – oltre che di efficacia tecnica – ma anche di approccio psicologico alla partita. Tant’è che in pochi altri sport come questo, a parità di mezzi tecnici e atletici la differenza può emergere proprio dall’essere in fiducia, e quindi ingiocabili, in determinati momenti del match.

I tentativi di spiegare il fenomeno

In queste occasioni gli addetti ai lavori hanno cercato di spiegare come mai il tennis, come e più di altri sport, contenga in sé una sorta di fattore di rischio per il disagio psicologico. Rafael Nadal, per esempio, ha ben raccontato il senso di solitudine che si prova in campo, dato che il tennis è sport individuale per antonomasia. Ma la sola “pressione” dovuta al dover affrontare match più o meno, può spiegare addirittura la sofferenza della psiche? Non dovrebbe esaurirsi all’interno dell’evento agonistico, determinando magari una contro-prestazione. ma rimanendo confinata all’interno del rettangolo di gioco?

Un circuito che non tiene conto dei ritmi circadiani

Cominciamo allora a dire che le basi neuro-fisiologiche della depressione sono molteplici e non tutte note. Alcune di queste, però, sono state individuate e una, nello specifico, potrebbe aiutarci in questa analisi: lo sfasamento sistematico dei ritmi circadiani. Il nostro orologio biologico interno costruisce il suo equilibrio attraverso la secrezione di ormoni che influiscono sui nostri stati d’animo. Ognuno di noi ne ha una riprova ogni giorno, quando si sveglia: essendo gli esseri umani animali diurni, al fare dell’alba inizia la massima produzione di cortisolo, ormoni tiroidei, adrenalina e testosterone, indispensabili per affrontare in maniera energica le ore di luce. Al contrario, all’imbrunire, iniziamo a produrre e melatonina, l’ormone che ci accompagna naturalmente verso il sonno. Gli ormoni del risveglio e quelli del mattino sono antagonisti: non possono coesistere senza creare una situazione di disagio fisico e mentale, che molti conoscono come jet-lag.

Ebbene nel tennis le regole fisiologiche vengono sistematicamente alterate per l’intera stagione agonistica. I ritmi sonno/veglia sono continuamente sottoposti a stress sia per i continui trasferimenti continentali, sia per lo sfasamento dovuto agli orari degli incontri all’interno dei singoli tornei. Si tratta di una situazione che è emersa in maniera eclatante dopo il ritiro di Sinner al Masters 1000 di Parigi Bercy, causato da un orario sconsiderato da un punto di vista organizzativo. Se questa spiegazione può sembrare semplicistica, dobbiamo tenere a debito conto due informazioni importanti: la prima è quella per cui la deprivazione di sonno per 36 ore è una tecnica di reset dei ritmi circadiani ampiamente utilizzata nei ricoveri in psichiatria proprio per avviare le cure delle depressioni maggiori. La seconda è quella per cui, spesso congiuntamente, la terapia della luce viene ampiamente usata come tecnica di mantenimento del tono dell’umore proprio nei pazienti alle prese con sindromi depressive i quali, in questo modo, riescono a recuperare un discreto ritmo sonno/veglia e a riorganizzare così l’intera produzione di ormoni e neurotrasmettitori, proteggendosi dalle ricadute.

L’effetto di “exercise addiction”

Un altro aspetto che può essere preso in considerazione è quello relativo al delicato rapporto esistente tra attività fisica ed equilibrio psichico. Si tratta della cosiddetta dipendenza da sforzo, in inglese conosciuta come “exercise addiction”. È, questa, una sindrome ben conosciuta e con molta letteratura soprattutto tra gli sportivi amatoriali, i quali rischiano di sviluppare sindromi depressive, con ricadute familiari e sociali importanti, quando viene loro impedito di inserire un esercizio fisico costante (e spesso intenso) nella propria routine.

Il fatto che la sindrome sia ben nota tra gli amatori, non mette certo al sicuro l’atleta di alto livello il quale – a sua volta e inevitabilmente – sviluppa nello stesso modo un bisogno fisiologico di produrre quelle sostanze strettamente collegate allo sforzo fisico e all’allenamento (serotonina, dopamina, ma soprattutto endorfine) che influiscono anche sul tono dell’umore. Tuttavia, come abbiamo visto proprio con Sinner, Alcaraz e Medvedev, il tennis odierno è uno sport di sollecitazioni muscolari, tendinee e articolari molto importanti. Gli infortuni da stress costringono a periodi di riposo forzato e di astensione dal lavoro. Sono momenti che costringono l’atleta a interrompere l’attività e, con essa, la produzione di quei neurotrasmettitori in grado di garantire l’equilibrio psicologico. La fatica, riassumento, fa sviluppare sostanze in grado di dare una vera e propria dipendenza. Con tutte le conseguenze del caso.

La spiegazione deve essere multifattoriale

Abbiamo provato quindi a offrire un punto di vista neurofisiologico per provare a spiegare il disagio riferito da molti tennisti, cercando qualcosa che vada al di là dello stress da competizione. Non è possibile affermare con certezza se quanto abbiamo detto sopra sia determinante in relazione alle oscillazioni del tono dell’umore di un Kyrgios o di una Osaka. Possiamo però sostenere con ampia letteratura come le condizioni descritte siano perfettamente in grado di determinare un disagio, destinato a fare da trigger nelle persone maggiormente predisposte al disturbo. Sono elementi di riflessione, quindi, che dovrebbero essere tenuti in debito conto se si vuole garantire la salute psicofisica degli atleti. I quali rimangono protagonisti dello spettacolo se, e solo se, al meglio delle loro possibilità. Fisiche e psicologiche.

Giulio Divo

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