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L’EDITORIALE – Professionisti sì, ma senza sceneggiate: la coerenza vale più di un tatuaggio

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di Vincenzo Letizia

Luciano Spalletti è un professionista, e come tale ha il diritto – anzi, il dovere – di accettare le sfide che il suo mestiere gli propone. Se domani fosse la Juventus a offrirgli un progetto serio, un contratto adeguato e una squadra all’altezza, sarebbe perfettamente legittimo che l’ex commissario tecnico azzurro valutasse la proposta. Il calcio, alla fine, è lavoro. E il lavoro non si giudica con la maglia, ma con la competenza.

Quello che però stona, e che spesso lascia un retrogusto amaro nei tifosi, è il contorno. La recita, la posa, la retorica. In un calcio sempre più spietatamente aziendale, alcuni protagonisti continuano a recitare la parte del passionale, del “cuore e bandiera”. Baciano lo stemma, si tatuano simboli del club, promettono amore eterno come in una sceneggiata di Mario Merola. Poi, qualche mese dopo, cambiano panchina e sentimenti con la stessa disinvoltura con cui cambiano giacca.

Nessuno pretende che un allenatore o un calciatore sia un tifoso. Si chiede, però, un minimo di sobrietà, di rispetto per l’intelligenza di chi sta sugli spalti e crede ancora in qualcosa che va oltre il bilancio e la clausola rescissoria. Spalletti, come molti altri, dovrebbe essere ricordato per le idee, non per i gesti da melodramma. Il professionista fa il suo mestiere, il teatrante cerca applausi facili. E nel calcio moderno, forse, servirebbe meno teatro e più verità.

 

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