Il paradosso del calcio femminile in Italia: faville sul campo, disastro nei conti. Spese esplose e ricavi inesistenti, così il sistema non regge
Costi fuori controllo, bilanci in rosso, club in difficoltà che spendono fino a quattro volte quanto potrebbero permettersi. È lo stato del calcio italiano, ma stavolta femminile: le donne del pallone non se la passano troppo meglio dei loro colleghi, anzi. La crisi del sistema è forse ancora più strutturale di quello maschile. Come ogni anno, la Figc ha pubblicato il “Report Calcio”, mastodontico studio (quasi 250 pagine di dati e statistiche) elaborato dalla società Pwc che vorrebbe celebrare il movimento (e il suo presidente), invece finisce sempre per consegnarne un ritratto impietoso. Anche nell’ultima edizione, che riguarda la stagione 2023-2024, emergono i soliti vizi della Serie A che continua a perdere una montagna di soldi (-370 milioni come risultato aggregato), e ha accumulato un debito monstre di circa 5,5 miliardi di euro (anche se, va detto, il trend è in leggero miglioramento rispetto al passato).
I disastri dei club di Serie A e delle categorie minori non fanno quasi più notizia. Più interessante, allora, soffermarsi per una volta sullo stato del movimento femminile. Solo apparentemente, o comunque solo parzialmente, in salute. I risultati della nazionale (agli ultimi Europei ha sfiorato la finale, venendo raggiunta soltanto all’ultimo secondo dall’Inghilterra campione) e un’indubbia crescita in termini di immagine e di interesse generale, sembrerebbero confermare la narrazione di un movimento in ascesa esponenziale. Gli indicatori finanziari dicono altro. Secondo il Report Calcio, il movimento femminile avrebbe un valore complessivo di addirittura 3,2 miliardi di impatto sul Pil italiano. Andando però a guardare il dettaglio, scopriamo che di questi soltanto 100 milioni sono per effetto diretto delle attività sportive, il resto tutto per aspetti non tangibili, come il benessere psicofisico o la parità di genere. Mentre molto concreti sono i problemi nei bilanci delle società. Delle 10 squadre che compongono la Serie A femminile, nel 2023-2024 soltanto una ha raggiunto il pareggio. Le altre invece hanno chiuso con rossi pesanti, con una perdita media di 3,3 milioni di euro. Questo perché i club femminili spendono tantissimo, quasi 4,5 milioni di euro a testa per un campionato. Ma ne incassano appena uno, con uno squilibrio strutturale che al momento appare insanabile.
I diritti tv non valgono praticamente nulla: venduti per pochi spicci a Dazn (che trasmette tutte le partite) e alla tv di Stato (che ha la miglior gara a giornata in chiaro, più le finali di coppa), fruttano ai club la miseria di 50mila euro a stagione. Non è un caso che la “Serie A Women’s Cup”, la competizione che anticipa il campionato che partirà solo a ottobre, sia rimasta invenduta, come raccontato dal quotidiano Libero. Ancora meno arriva dal botteghino, visto che solamente il 50% delle società di Serie A prevede ticketing a pagamento (con un costo medio del biglietto di appena 7 euro, prezzi da dilettanti). In compenso le spese sono letteralmente esplose negli ultimi anni. Qui entra in gioco il tanto decantato professionismo, ottenuto nel 2022 e festeggiato come un traguardo storico, che avrebbe dovuto portare il movimento alla parità coi colleghi maschi. Sul piano dei diritti è stata sicuramente una conquista, l’altra faccia della medaglia sono le conseguenze sui conti dei club: il costo del personale è aumentato del 40% in un colpo secco, e ormai sfiora i 3 milioni di euro l’anno, cifra assolutamente fuori portata, più alta anche di tornei molto più sviluppati e seguiti del nostro (come ad esempio la Liga spagnola). Per numeri e proporzioni, la Serie A femminile è paragonabile per certi versi alla Serie C maschile, un altro campionato in stato comatoso (siamo ad agosto e già ci sono due-tre squadre che rischiano seriamente di saltare, falsando un’altra stagione), che da anni chiede proprio di uscire dal professionismo, con la differenza che lì almeno esiste un volume di interesse e di pubblico che il femminile ancora non avvicina nemmeno lontanamente.
Oggi quello femminile è un sistema che, semplicemente, non sta in piedi sul mercato. Si regge soltanto sui sussidi, che da soli rappresentano il 35% delle entrate di un club, e sono l’unica voce di ricavi cresciuta in modo davvero significativo. E sulle regole che impongono ai club maschili di creare una completa filiera di calcio giovanile femminile, per cui mantenere una squadra maggiore è soprattutto un’operazione di marketing (piuttosto dispendiosa). È vero che a fronte di questi numeri negativi bisogna annotare anche l’aumento delle tesserate (passate da 30 a 45mila negli ultimi cinque anni, con l’obiettivo di sfondare presto quota 50mila) e di visibilità, ma la domanda da porsi è se un movimento fondato su queste basi possa crescere davvero sul lungo periodo.
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