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Buffa racconta l’amore argentino per il calcio al teatro Giovanni da Udine

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Buffa racconta l’amore argentino per il calcio al teatro Giovanni da Udine

UDINE. Il palcoscenico del Giovanni da Udine, già peraltro calpestato due volte (con due soggetti intriganti: Kubrick le Olimpiadi del ’36), «è sempre una sensazione piacevole» per Federico Buffa il più amato cantastorie della televisione e uno che col cinema dell’Estremo Est va molto d’accordo.

Da parecchie edizioni di “Far East Film” lo si nota di buon mattino nel foyer mentre sfoglia il programma e, fino a sera, raramente lascia incustodita la sua poltrona in platea.

«Amo il vostro teatro cittadino e occupare la scena laddove di solito è ben teso il telo del grande schermo è un gesto che mi emoziona», spiega il giornalista di Sky sin da bimbo innamorato del basket – «e pure ora, nonostante abbia allargato il mio raggio d’azione» — con competenze incamerate durante la corsa attraverso lo sport, prosa compresa, un tipo di performance diversa da un Goldoni qualunque, per capirci, ma ugualmente intensa e moderna nella sua rappresentazione scenica.

La data del suo arrivo con “La Milonga del Fútbol”, titolo che rievoca le atmosfere calcistiche argentine, sarà per martedì 23 luglio, alle 21, a cura della rassegna “Teatro Estate”.

Tre sono i campioni che lei esplora in questa “partita” tanghera e ognuno di loro è connesso all’altro da un legame tricolore: Renato Cesarini, Omar Sivori e Diego Maradona. Ci svela la genesi dell’operazione nostalgia?

«L’Argentina è una terra che sento vicina e, infatti, mi sono lanciato per la prima volta a scrivere lo spettacolo da solo, per me un salto in alto provocato da una intensa passione. Cesarini nasce in Italia, poi si trasferirà con i suoi a Buenos Aires, mentre Sivori è figlio della Pampa, un luogo che gli cucirà addosso sensazioni forti ben diverse da quelle di Renato e, infine, Maradona un “prodotto” delle bidonville, ma con la mamma italiana. In tre fanno dieci scudetti italiani. Va detto che Cesarini scopre Sivori e Sivori anticiperà con la sua immaginazione la carriera di Diego, peraltro azzeccandola».

Cesarini, suppongo, sia quello della famosa “zona”, ovvero di chi segna solitamente all’ultimo minuto.

«Esattamente. Così molte signore presenti una volta per tutte capiranno che significa zona Cesarini, chissà quante volte evocata dai loro mariti a volte con gioia, a volte con disappunto».

Ci anticipa come mai il signor Cesarini diventò così famoso? Segnò molti gol poco prima della fine dell’incontro?

«Macché, uno soltanto nel 1931 contro l’Ungheria e sarà il terzo per la nazionale italiana e quello decisivo per la vittoria. Un giornalista piemontese s’inventò, appunto, quel “zona Cesarini” perché il calciatore spinse la palla in fondo alla rete proprio al 90’. In quei giorni era ospite del nostro Paese il Mahatma Gandhi, ma in realtà il Papa non lo ricevette perché non ritenne consono il suo abito e la stampa lo snobbò perché i titoli inneggiavano soltanto all’eroe Cesarini».

C’è musica in scena. Con il duo Mascia Foschi, voce, e Alessandro Nidi al pianoforte. In che modo interagiranno con lei?

«In esibizioni senza di me sul proscenio o mescolandosi al monologo in questo luogo/spazio non ben definito dove ci siamo persi nel tempo».

Ritornando alle origini: tutto cominciò dal suo infinito amore per il basket?

«Senza la pallacanestro non esisterebbe il presente. Mi fu offerta l’opportunità di lavorare a Tele +, la zia di Sky, e da voce della radio diventai visibile e tutto cambiò. Dal 2014 avvenne il passo successivo, ovvero il trasloco in teatro delle mie storie televisive partendo proprio dalle Olimpiadi del 1936. Pensavo di fare al massimo cinque repliche, arrivammo invece a 136. E, da quel momento, cominciai un’altra fase della mia vita».

Possiamo definire il genere come “ibrido” e con un vago richiamo al teatro canzone di Gaber?

«Non me la sento di finire nella stessa frase con presente Gaber, per carità, ma concettualmente sì. C’è un fatto: io non sono un attore e, dunque, sarebbe impossibile costruire su di me un tipo di spettacolo tradizionale che non sarei nemmeno in grado di sostenere. Dunque ben ci sta il termine ibrido. Parecchia gente mi raggiunge a fine serata confessandomi che a teatro abitualmente non ci va, ma la curiosità l’ha spronata ad abbandonare il divano. E di ciò mi sento orgoglioso».

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