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Il critico e poeta Giovanni Raboni racconta la passione per il calcio

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Il critico e poeta Giovanni Raboni racconta la passione per il calcio

Che gli studiosi e gli intellettuali siano tra le categorie più appassionate del gioco del calcio è un sospetto confermato da un aureo libretto che si può senza indugio far rientrare nell’inspiegabilmente vituperata categoria dei libri “da portare sotto l’ombrellone”.

Curatore ne è Rodolfo Zucco, raffinato letterato, docente all’università di Udine e già curatore del Meridiano Mondadori dedicato a Giovanni Raboni, critico teatrale e letterario, traduttore (di Proust), e poeta tra i massimi del nostro secondo Novecento.

In Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita (Mimesis, 2024), Rodolfo Zucco riunisce alcune poesie e diversi scritti, quasi tutti interventi giornalistici, che Giovanni Raboni ha dedicato al calcio, e nei quali il milanese ha dato prova di quella straordinaria intelligenza e cura per le parole che ha segnato la sua opera.

Il poeta, scomparso nel 2004, risolve così alcuni dubbi che da tempo tormentano la nazione, e non solo.

Primo: qual è il motivo per cui miliardi di persone dedicano un tempo spropositato a guardare due squadre in mutande che tirano calci ad una palla? Il segreto del calcio, spiega Raboni, ma la risposta potrebbe valere per tanti riti ed occupazioni di molte, diverse società, il segreto del calcio sta nella sua gratuità, «è una passione gratuita: non ha senso».

Dunque, aggiungiamo noi, ci solleva dalla impellente necessità, vera o falsa, che assegniamo alle nostre occupazioni quotidiane, ammantandole di un’importanza fittizia. In fin dei conti, riflette Raboni, «cosa ce ne importa, che vinca l’Inter» (gliene importa, gliene importa, come si vedrà)?

In secondo luogo, raccontandoci l’inizio della sua passione calcistica, che non era stata ereditata dal padre come succede per molti, Raboni riflette sulla radice del suo innamoramento per il calcio e per una squadra, e lo chiama senza giri di parole: «tifo» («sportivo sarà lei» chiosava l’indimenticato Beppe Viola).

Lo fa ricostruendo sul filo della memoria – ecco Proust – le sensazioni e i momenti per i quali ha indissolubilmente legato sé stesso al gioco del calcio, e alla sua personificazione: l’Internazionale Football Club di Milano, anzi, l’Ambrosiana Inter come era stata chiamata in epoca fascista per italianizzarne il nome.

Non si può amare il calcio, ci dice Raboni, senza inchiodare questa passione a una squadra, senza incarnarla in alcuni giocatori e agli indelebili (allora) colori societari: il tifo è il meccanismo per il quale da spettatori diventiamo protagonisti, «viviamo» il calcio come se fossimo noi stessi in campo, pur rimanendo seduti sui gradini di uno stadio o su una poltrona di casa.

Chissà cosa avrebbe detto, nella sua purezza filologica, Raboni, nel vedere il mercimonio volgare delle seconde, terze e quarte maglie che cambiano ogni anno e vestono le squadre con colori impresentabili solo per gonfiare il merchandising.

Raboni e Zucco ci spiegano infine, il mistero (per noi) dell’interismo, cioè del tifo per la maglia nerazzurra, che è tra le passioni calcistiche forse la più caratterizzata e totalizzante. È un amore, dicono, che si nutre di alti e bassi, di gioie effimere (come, recentemente, compiacersi per una finale di Champions perduta: incomprensibile!), un piacere che è soprattutto sospensione del dolore, dunque un culto molto blasé: non a caso l’Inter è la squadra preferita dagli intellettuali di sinistra, contro il volgare e popolaresco Milan.

Così, la squadra che il poeta ricordava con maggiore affetto era quella post-bellica che si salvò a malapena dalla B, nonostante tre o quattro «bidoni» sudamericani.

Abbacinanti, nella loro perfezione descrittiva, alcune definizioni di Raboni, che piaceranno a chi il calcio lo frequenta da quando lo si vedeva in bianco e nero in TV: la voce «postlittoria» di Nando Martellini, il «neghittoso» Mariolino Corsi, i tanti «incompresi» giocatori dell’Inter venduti ad altre squadre, nelle quali avrebbero fatto fortuna. Ai «suonatori di piffero» si rivolge il sonetto dedicato a Roberto Baggio, nel quale il genio vicentino viene messo a rima con… raggio. Basta la parola.

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