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Se il campionato diventa un campo di battaglia fra Stati Uniti e Cina

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Da Washington a Pechino passando per l'Italia del pallone. Lo scontro aperto tra Stati Uniti e Cina fa un giro largo, atterra sul nostro calcio per piazzare bandierine e possedimenti come segno di supremazia, fame di conquista. Il nostro Paese assiste alle razzie, sullo sfondo c'è un testa a testa nemmeno tanto nascosto che simboleggia una conflittualità latente tra due giganti, protagonisti di una contesa geopolitica e strategica a tutto campo. E che come tale non può lasciare scoperto nessun punto nevralgico.

In un attimo si passa dal bando imposto da Trump alle applicazioni Tik Tok e WeChat (di proprietà cinese) all'espansione mirata verso il calcio europeo e nello specifico quello italiano. Non a caso gli ultimi arrivati in A sono entrambi americani, a Roma Dan Friedkin e a Parma Kyle Krause, con la colonia nordamericana arrivata a cinque club in massima serie, considerate anche la Fiorentina di Commisso, il Bologna di Saputo (canadese di Montreal) e il Milan nelle mani del fondo Elliott, guidato dal fondatore e partner Paul Singer.

Di fatto un quarto del massimo campionato è a stelle e strisce. Una rivoluzione repentina se si pensa che appena due anni fa la Cina aveva in mano la Milano del calcio, con la sventurata epoca di Yonghong Li al Milan e il gruppo Suning attuale azionista di maggioranza all'Inter, oltre all'avventura del magnate Jiang Lizhang a Parma. Il fronte si è ribaltato, gli Stati Uniti hanno siglato un netto sorpasso perché nel lotto bisogna considerare anche i trascorsi dell'avvocato newyorkese Joe Tacopina, transitato da Bologna e poi arrivato a Venezia senza raccogliere fortuna. In fondo i risultati non contano troppo, quel che conta è fare incetta di nuove proprietà, alimentare un braccio di ferro che viene da lontano e arriva fino a una guerra fredda digitale imperniata sul futuro, tra il 5G e la posizione di Huawei, colosso cinese delle telecomunicazioni.

Pechino ha accusato Washington di bullismo, la controparte ha replicato con accuse di spionaggio industriale e minaccia alla sovranità nazionale. Il vento cinese sembra essere cambiato, si è esaurita quella folata rivoluzionaria che aveva portato in Chinese Super League pedine del calibro di Tevez, Gervinho e Lavezzi, scaricando vagonate di yuan sui club europei e sui contratti dei diretti interessati. Un carrozzone impazzito durato fino al 2018, quando le autorità cinesi hanno ripristinato l'ordine a colpi di leggi, per imporre un tetto agli ingaggi e ai costi dei cartellini. Pechino ripone massima attenzione ai trend e agli investimenti all'estero, ne sa qualcosa l'Inter di Steven Zhang, chiamata ad accontentare le richieste di Conte, ma anche a sottostare alle restrizioni che arrivano dalla madrepatria. Un'altra stangata è arrivata dalla Premier League, che ha rotto ogni legame con PPTV, società di proprietà di Suning e detentrice dei tanto ambiti diritti per trasmettere le partite di Premier in Cina. I tempi sono magri, lo dimostrano pure le voci sugli stipendi non pagati allo Jiangsu Suning, la squadra di Nanchino della famiglia Zhang.

Sul volto dei rivali americani è facile intravedere un ghigno di fronte a tutti questi impedimenti, proprio mentre il marchio Usa dilaga in Serie A e potrebbe avvantaggiarsi con l'ingresso nel circolo della cordata di fondi Cvc, Advent e Fsi. Neanche a farla apposta, il fondo Advent International è americano, con sede a Boston. Ennesimo tassello di un mosaico che parla fin troppo chiaro.

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