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Il bagno della vita: la Lanterna racchiude in sé il senso di un’intera città. Ma non è l’unico

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Il bagno della vita: la Lanterna racchiude in sé il senso di un’intera città. Ma non è l’unico

TRIESTE La scrittura nasce da piccoli e grandi traumi, dicono. Il mio si chiama “trauma del Pedocin”. Correvano i tempi di Marco Caco e l’allora illustre settimanale triestino Il Meridiano mi incaricò di scrivere il mio primo articolo in forma di reportage sullo stabilimento “La Lanterna”: gioia, ansia, coronamento di un sogno, l’incubo della mia timidezza.

Io, che allora non chiamavo nemmeno il 12 dell’ora esatta per non disturbare, avrei dovuto sfidare la sabiana asprezza delle babe abbrustolite dal sole e poi gettare il cuore oltre un ostacolo alto tre metri, lungo settantaquattro: il famoso muro del Pedocin. Il muro di Berlino era ancora in piedi, Basaglia aveva smantellato da poco i muri del Civico Frenocomio di Andrea Sergio Galatti, istituzione inaugurata nel 1908, quasi contemporanea al Pedocin, ma quel fazzoletto di spiaggia cittadina e popolare divisa in due, avanguardia della retroguardia, resisteva alle rivoluzioni della storia, come mai?

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Perciò, in una mattina di sole col mus (l’asina che ero) e col bus al posto del tram, mi recai in missione: «Sono un’inviata del Meridiano, vorrei chiederle cosa ne pensa del muro del Pedocin». Nel dirlo mostrai alla signora Lina il quadernetto degli appunti e lei, perentoria: «El muro xe e ghe resta, fin che son viva mi el muro resta qua» ma io, ahimè, avevo dimenticato la penna. «Non avrebbe una penna, per caso?». «Signorina, che razza de giornalista la xe se no la gà de scriver?».

Ecco, il sabotatore interno colluso con la vertigine del fallimento, l’atto mancato freudiano, l’introietto weissiano persecutorio, l’inettitudine sveviana intesa come frattura tra l’io e la realtà: in parole povere, una clamorosa figura di merda annaspando nel mare verde caccola. L’articolo, in un modo o nell’altro, uscì ma, da allora, non ho mai smesso di collezionare Bic che mi bucano le tasche dei cappotti, macchiano le borsette e, se cerco una matita per occhi nella trousse, trovo penne e mai matite, a penna ho compilato anni di Bartezzaghi sulla Settimana Enigmistica, mai matite, perché l’onta non si cancella. In seguito al trauma del Pedocin, ho continuato a scrivere ma ho abbandonato l’idea di fare la cronista d’assalto, ho capito che il muro del non saper chiedere con una forza che assomiglia al pretendere non sarebbe mai stato valicato, certo, ho imparato, se necessario, a trasformare la timidezza in breve spavalderia ma, intimamente, la risacca del Pedocin non ha mai smesso di perpetuare il suo lanciarsi in avanti e poi ritrarsi, inghiottendo sassolini.

Il Pedocin, James Joyce e Forty Foot.

“Mare verde caccola scroto-costrittore” (nella traduzione dell’Ulysses di Gianni Celati, Einaudi, 2013): il mare davanti alla Torre Martello di Sandycove, citato nel primo capitolo dell’odissea di Bloom. Tempo fa ho visitato le stanze dove Joyce soggiornò e saggiato l’acqua gelida della spiaggia Forty Foot, mi sono chiesta come fosse possibile tuffarsi in quel mare quasi artico, ho pensato ai vecchi triestini a Capodanno, sprezzanti del termometro e magari corroborati dall’alcool come gli irlandesi, sicuramente altrettanto noncuranti dello shock termico procurato ai gioielli di famiglia.

C’è un’analogia tra Forty Foot e il Pedocin: fino gli anni Settanta il piccolo lido dublinese era riservato esclusivamente agli uomini, poi una protesta femminista portò al cambiamento, quello che non è mai accaduto al Pedocin. Pare che James Joyce abbia frequentato La lanterna e il precedente Bagno Fontana con il figlio Giorgetto ed è probabile che si sentisse a casa, sia per il colore dell’acqua nei giorni di scirocco sia per quel ritrovarsi tra soli uomini o uomini soli «senza babe che fa rumor, i fioi che fa casin e le commesse della Upim che se porta drio i muli», come mi disse un habitué della sezione maschile, durante l’increscioso esordio della mia carriera di scrittrice spennata. Forty Foot ha capitolato, oggi il Pedocin nella sua reazionaria divisione uomini e donne rimane l’ultima delle istituzioni ludiche, elioterapiche e rivoluzionarie, per chi intende il giro di boa.

Pedocin e body shaming.

Se non stessi scrivendo per Il Piccolo, forse dovrei spiegare il significato dell’ossimoro “avanguardia della retroguardia” di cui sopra, ma i triestini lo sanno, anche solo intuitivamente, cosa possa intendere, da più di un secolo. Un’ordinanza asburgica vietava atti contro la pubblica decenza, un altro regolamento, datato 3 marzo 1934 vietava “l’esposizione al pubblico di piaghe, ferite, eczemi e deformità in genere” e il senso estetico di mia zia scoraggiava la mia frequentazione del Pedocin da baby boomer, per gli stessi motivi: «Xe pien de vecie piene de cicatrici, no xe un bel veder per una picia». Ma una bambina in quelle donne non vedeva corpi belli o brutti, sani o feriti, ma l’affetto di un’umanità femminile prodiga di albicocche scaldate dal sole e panini con i fiori del salame ungherese, cose buone di cui fidarsi, carezze un po’ ruvide ma occhi attenti e battuta pronta, bagnanti impavide più dei bagnini.

“Donne, obbedire non è più una virtù”, la scritta campeggiava sui muri di San Giovanni. “Noi desideriamo che il nostro corpo sia rispettato: tracciamo limiti che corrispondono alle nostre esigenze, costruiamo un’abitazione al nostro corpo”, scriveva Franco Basaglia in Corpo, sguardo, silenzio nel ‘65. Ecco, il Pedocin è un’abitazione per corpi che trova nel limite la soddisfazione di un’esigenza di libertà. Belle e brutte, vecchie e giovani, magre e grasse, le donne del Pedocin conducono da più di un secolo la battaglia di un femminismo fisiologico, profondamente radicato nel carattere triestino, una lotta ante-litteram al body shaming, e il muro, lungi dal significare segregazione, è simbolo, unico al mondo, dell’emancipazione dallo sguardo giudicante altrui. Ed è, a ben vedere, anche il baluardo di una certa altezzosa tenerezza, della signoria di se stesse, del non dover essere ma del saper essere, la virtù del non obbedire né alla dittatura della bellezza né alla presenza scomoda di “omini che vien a cucar”. Il Pedocin era e resta un bagno tutto per sé, per dirla con Virginia Woolf, al quale però non serve essere ricche per accedervi. Basta un euro.

Dal Pedocin in là.

Che non capiscono, i foresti, cosa significhi andare al bagno per un triestino. No la xe, la xe al bagno. E quando torna? Stasera tardi. Un witz. Sgomenti i foresti per tanta permanenza alla toilette, non sanno dei primi tuffi carpiati ai Topolini, dei primi giochi nell’acqua a Grignano 1, delle scarpinate alla Costa dei Barbari, dei primi baci sapore-di-sale al camping di Sistiana con il jukebox che cantava Sei bellissima della Bertè, e di quella meravigliosa cava dalla quale ora è sorto Porto Piccolo, dove, scavalcando la recinzione, ci si poteva impanare come sardoni dopo il bagno o sentirsi a Zabriskie Point. Non sanno nemmeno delle acque chete e sabbiose di Punta Sottile, di nuotate piccole e basse che finivano in una gran frittura di calamari che chiamavo pesci tondi, e non sanno che, avventurandomi dalla riva al moletto del bagno Excelsior, primo stabilimento balneare della riviera di Barcola, a sei anni ho rischiato di annegare (in quel caso avevo scordato le pinne). E poi c’erano le arrampicate sugli alberi di fico ai Filtri e le corse sugli scogli, sulle ferite sale e limone, ferite di creatura marina di nome e di fatto di cui andavo molto orgogliosa. Così, benché la vita mi abbia portato altrove, è rimasta l’impressione che tutti i foresti terricoli che frequento in fondo non sappiamo un granché di me. Di certo non sanno che sono una che dimentica la penna ma non il mare. —

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