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Claudio, il paziente uno della provincia di Mantova: «I miei 24 giorni d’ansia nell’ospedale di Dubai»

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Claudio, il paziente uno della provincia di Mantova: «I miei 24 giorni d’ansia nell’ospedale di Dubai»

GUIDIZZOLO. Sembrano passati secoli da quelle ultime settimane di febbraio quando il mondo è cambiato. Quando si aspettava con ansia il bollettino dei contagiati nella speranza che Mantova e la sua provincia fossero fuori pericolo. Poi i primi casi, con l’escalation di positivi che ha messo in ginocchio il territorio. La cosa però incredibile è che il primo contagiato mantovano (almeno a livello ufficiale, tampone alla mano) non ha fatto test al Poma o in provincia. Li ha fatti a Dubai.

È la storia di Claudio Muratori, 26enne di Guidizzolo (che ora vive con la famiglia a Cerlongo). Muratori, insieme al padre Andrea, fa il meccanico. Un meccanico speciale: segue il ciclismo professionistico ed è parte integrante di una delle squadre più prestigiose al mondo, il Team Uae Emirates. Quello ideato da Beppe Saronni, quello con campioni come Gaviria, Aru e Formolo. Erano tutti in corsa a Dubai, quando il 27 febbraio succede qualcosa di incredibile. Di angosciante: «Avevamo finito una tappa lunga con un caldo fastidioso – racconta Claudio –. Per tutto il giorno ho bevuto sali minerali e vitamine perché non mi reggevo in piedi. Ho dato la colpa a caldo e stress, poi però la sera i medici della squadra mi hanno provato la febbre ed era a 38,9 gradi. Anche altri all’interno della corsa non si sono sentiti bene, per cui abbiamo raggiunto l’ospedale per fare i tamponi. E sono risultato positivo».

In un momento, è bene ricordarlo, in cui il coronavirus era ancora sconosciuto. Erano i tempi della zona rossa intorno a Codogno e Lodi: «Mi ha preso l’ansia e la preoccupazione – continua Muratori – anche perché ero lontano da casa. Per fortuna non ho avuto bisogno della rianimazione, sono rimasto nel reparto di malattie infettive». Un calvario lungo ben 24 giorni, il tutto mentre in Italia scoppiava la pandemia: «Ogni tre giorni mi facevano un tampone – spiega – ma erano sempre positivi. Poi è passata la febbre, l’unico sintomo fastidioso che ho avuto. Per fortuna dopo circa due settimane di ricovero è arrivato il primo tampone negativo. Ne ho dovuti attendere tre per poter finalmente lasciare l’ospedale e tornare a casa».

Un’esperienza dura, durissima: «Sì, anche se per certi versi ero sollevato. Essendo così lontano non correvo il rischio di infettare i miei cari. Il problema però è che dopo un po’ a livello psicologico diventa tutto complicato. Quello fa la differenza: più ti preoccupi, più sei in ansia, più il virus riesce ad essere efficace. Con la calma è arrivato anche il benessere, inoltre devo dire che la squadra è stata straordinaria, non mi ha mai fatto sentire solo».

Il ritorno in Italia (un’altra avventura con l’infinito scalo a Zurigo) è stata un’emozione, condita da un velo di paura: «Quando ho rivisto mia moglie e mia figlia è stato un momento indescrivibile. Poi però ho vissuto giornate di tensione perché avevo sempre la paura di poter diventare pericoloso per i miei cari. Piano piano questa cosa si è affievolita e ora va tutto bene».

Claudio tornerà al lavoro nel mese di luglio, quando il team ricomincerà ad allenarsi in vista della ripresa sportiva fissata per i primi di agosto: «Pensi sempre che tanto non può succedere una cosa del genere a te, che hai 26 anni e sei grande e forte. Invece è andata così. Dove l’ho preso? Me lo sono chiesto ogni giorno. Difficile che sia partito da casa già infetto, nessuno dei miei parenti o amici ha avuto il virus. Forse il contagio è avvenuto in aeroporto. Ma non ha senso pensarci. Piuttosto mi sono informato per poter donare il plasma ma avendo svolto la convalescenza all’estero le procedure sono più complicate. Peccato».
 

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