Pietro Aradori è il protagonista della 31a puntata di Post&Dual Career
Pietro Aradori è uno di quei giocatori che non hanno bisogno di presentazioni. Con talento, carisma e personalità si è affermato tra i volti più distintivi della pallacanestro italiana. Ha attraversato quasi tutta la mappa della Serie A – vestendo le maglie di Milano, Siena, Reggio Emilia e Bologna sia Virtus che Fortitudo e ora a Forlì – e ovunque ha lasciato il segno.
L’azzurro dell’Italbasket lo ha vestito più di 150 volte, dagli Europei ai Mondiali. Oggi, a 36 anni, Aradori è ancora un volto riconoscibile del basket italiano, dentro e fuori dal campo: si è costruito un brand di streetwear – “Doggy Streetwear” – tutto suo e ha pure conquistato una laurea in Management dello Sport. Un atleta che non si limita a segnare, ma anche un imprenditore che sa come raccontarsi.
1. Qualche mese fa sei prima diventato padre e poi all’inizio di giugno ti sei laureato in “Sport e Management”. L’annata 2024/25 sarà difficile da battere in termini di soddisfazioni personali e familiari?
Sì, è stata un’annata intensa e straordinaria, sotto tanti punti di vista. Diventare padre è un’esperienza che ti cambia profondamente: ti costringe a rimettere in discussione le priorità, il tempo, le energie. In parallelo, riuscire a portare a termine un percorso universitario è stato un obiettivo personale che volevo raggiungere, prima di tutto per me stesso. Non è stato semplice, ma proprio per questo è stato ancora più significativo. Credo che la bellezza di quest’anno stia nel suo equilibrio: realizzazioni professionali, ma soprattutto conquiste umane.
2. Da poco tempo hai lanciato “Doggy Streetwear”. Parlaci un po’ del tuo brand: come è nata l’idea, quali valori vuoi trasmettere e qual è la visione a lungo termine?
Sono sempre stato appassionato delle cultura di strada quando era solo corrente di pensiero unita a un incessante desiderio di riscatto.
Da tempo avevo il sogno di creare un brand che riflettesse la mia visione: capi streetwear oversize, comodi e ben proporzionati, che incarnassero l’essenza dello streetwear.
A lungo termine? Vorrei che diventasse una community, non solo un brand.
Stiamo lavorando alla collezione invernale, con nuovi capi e materiali, e il brand sarà presente il 21 e 22 settembre al PLUGMI di Milano.
3. Oltre che una passione, ora la moda rappresenta per te un’attività professionale come la pallacanestro. In una tua “giornata tipo” come concili gli impegni sportivi con quelli che riguardano il tuo brand / le attività che non riguardano il rettangolo di gioco?
La chiave, anche se può sembrare paradossale, è la disciplina. Lo sport mi ha insegnato a gestire il tempo in modo quasi chirurgico: ogni ora conta, ogni energia va allocata bene.
La mia giornata inizia presto, con l’allenamento e le attività legate alla squadra. Poi c’è spazio per il lavoro sul brand, che spesso vuol dire progettare, confrontarmi con il mio team creativo, occuparmi di fornitori, logistica, contenuti.
Non faccio tutto da solo – sarebbe impossibile – ma cerco di essere coinvolto in prima persona.
4. Tra la laurea e la creazione della tua attività imprenditoriale, la tua carriera si è mossa sui binari della Dual Career: qual è il consiglio che daresti ai ragazzi che hanno intrapreso il percorso del basket professionistico contemporaneamente agli studi?
Direi una cosa sola: non aspettate “il momento giusto”. Nella carriera sportiva non esiste un tempo perfetto per fare altro. C’è sempre una stagione decisiva, un infortunio da superare, un contratto da firmare.
Ma costruire qualcosa fuori dal campo non toglie nulla alla vostra identità di atleti. Anzi, vi dà equilibrio, prospettiva, consapevolezza. Studiare o intraprendere progetti paralleli vi prepara a una seconda vita che, prima o poi, arriverà per tutti.
La Dual Career non è un piano B, è un’estensione della vostra passione e del vostro talento.
5. Il presidente Alessandro Marzoli ti ha voluto fortemente nel nuovo organigramma GIBA. Cosa ti ha spinto ad accettare il ruolo di Senior Players Advisor e quali sono, secondo te, le battaglie più urgenti da affrontare per la tutela dei giocatori?
L’ho accettato perché sento il dovere di restituire qualcosa a questo mondo che mi ha dato tantissimo. So cosa significa essere un giocatore oggi: le pressioni, i contratti, i momenti di incertezza, la fatica nel conciliare vita privata e carriera.
Credo che ci sia ancora tanta strada da fare su temi fondamentali: la tutela dei diritti contrattuali, il supporto psicologico, la pianificazione del post-carriera.
Vorrei che il ruolo del giocatore fosse sempre più centrale, non solo come atleta ma come persona. E mi piacerebbe contribuire a costruire un sistema in cui ogni ragazzo o ragazza che sceglie questo mestiere si senta supportato davvero, dentro e fuori dal campo.
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