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Muore Gianni Pituzzi, grande coach della pallacanestro di Trieste

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TRIESTE Una polmonite fulminante ci porta via un altro grande Maestro della pallacanestro triestina, Gianni Pituzzi. Classe 1938, uomo che ha impreziosito con la propria competenza sia l’ambito giovanile che quello delle squadre senior, timoniere sulle panchine di Don Bosco, Libertas, Italsider, con la Pallacanestro Trieste targata Hurlingham, il San Vito, Basket4Trieste, ma soprattutto sul versante femminile, con storiche annate con Ginnastica Triestina e con l’Interclub Muggia.

Uno degli ultimi puristi del gioco, quelli che anteponevano la costruzione dal basso, cioè i fondamentali, a qualsiasi logica tattica. “Il basket deve ritrovare una sua precisa misura e una dimensione tecnica più definita. Per questo un sano lavoro sulla base è uno dei discorsi da riprendere” sintetizza il Pit-pensiero e che può essere scolpito nella pietra contro la superficialità contemporanea accademica. Ma limitare l’eredità lasciata da Gianni Pituzzi al mero concetto di insegnamento della palla a spicchi potrebbe risultare riduttivo; illuminati della sua generazione (Micol, Pistrin, Franceschini, Frizzati, ecc.) sono stati prima di tutto educatori, semplicemente perché era la conditio sine qua non per costruire uomini (o donne) prima che giocatori (o giocatrici). Se il prezzo da pagare era una dura presa di posizione, non c’era genitore o ammonimento esterno che poteva cambiare l’immediatezza del messaggio; probabilmente nell’epoca attuale non sarebbe possibile instillare quel tipo di educazione, ed è una sconfitta di tutte le generazioni successive.

Viviana Battaglia, sua ex grande giocatrice, racconta un aneddoto che racchiude l’essenza di Pituzzi: “non ero molto brava nei tiri liberi. Una volta, proprio grazie a due liberi segnati, vinciamo una partita in casa. Il giorno dopo, nello storico palazzetto di Chiarbola Pit mi vede e, con il suo "cicchino" in mano mi fa: "porca p.... Battaglia, finalmente te li ga buttadi dentro...brava!". Duro, schietto ma anche ironico e, come tutte le persone severe che ci tengono, con un lato neanche troppo nascosto di grande umanità, prova ne sia il cordoglio spontaneo di una comunità fatta di ex giocatori, ex giocatrici, addetti ai lavori, amici. Ora è tempo di accendersi l’ennesima sigaretta guardando dall’alto il suo mare di Barcola (“omo de scoio” come lo definiva l’amico Severino Baf), perché la semina di una esistenza è stata proficua e gli alberi cresciuti dalla stessa hanno radici solide.
 

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