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NBA 2019-20: il licenziamento di Atkinson sarà la fortuna dei Brooklyn Nets

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Ecclesiaste, 3:1-8. 1 Per tutto v’è il suo tempo, v’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: 2 un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per piantare e un tempo per svellere ciò ch’è piantato; 3 un tempo per uccidere e un tempo per guarire; un tempo per demolire e un tempo per costruire; 4 un tempo per piangere e un tempo per ridere; un tempo per far cordoglio e un tempo per ballare; 5 un tempo per gettar via pietre e un tempo per raccoglierle; un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracciamenti; 6 un tempo per cercare e un tempo per perdere; un tempo per conservare e un tempo per buttar via; 7 un tempo per strappare e un tempo per cucire; un tempo per tacere e un tempo per parlare; 8 un tempo per amare e un tempo per odiare; un tempo per la guerra e un tempo per la pace.

Un preambolo così inusuale da parte mia, tanto pomposo e sacrale può, forse, apparire eccessivo per un articolo che tratta di sport, tanto più in un momento così difficile per tutti; eppure lo ritengo ancor più opportuno, tanto per motivare la mia scelta, quanto per entrare in argomento.

Ho riflettuto molto sull’opportunità di rompere il silenzio di questi giorni drammatici; mi sono anche fermato a metà articolo, di fronte all’annuncio della positività di ben quattro giocatori bianconeri (tra cui Durant) ma, se vi è un tempo per parlare, forse è questo, quando la mente è più “fredda” al basket giocato e riesce a dare il giusto peso a ciò che legge (mero intrattenimento, in questo caso); così come questo, ed entro subito nel vivo del ragionamento, era il tempo giusto per “strappare” …

L’era di Kenny Atkinson come head coach dei Brooklyn Nets si è chiusa bruscamente il 7 marzo scorso, ad un passo dal completare la sua quarta stagione, solo due gare prima dell’altrettanto brusca sospensione della regular season per le ragioni che tutti conosciamo, e la notizia è stata accolta come un fulmine a ciel sereno da appassionati, tifosi e cronisti.

Non è mia intenzione entrare nel merito della cronaca dei giorni precedenti e successivi alla rescissione, o addentrarmi nella selva dei retroscena e delle ricostruzioni, più o meno plausibili, su chi e quanto abbia concorso a questo inatteso finale: sono solo sicuro che una crepa solcasse lo spogliatoio già da tempo e che si sia drasticamente approfondita, fino a renderlo inagibile, dopo il disastro casalingo contro i Grizzlies. Di due cose sono certo: se Irving e Durant avessero ancora voluto giocare per Atkinson, questi sarebbe ancora al suo posto; al netto dei tempi e dei modi, questo era un atto dovuto e sarà una fortuna, tanto per il coach, che ha così il tempo di maturare i crediti acquisiti in questi anni, che per la franchigia, alla ricerca della guida spirituale verso il successo.

Sgomberiamo subito il campo da qualsivoglia equivoco: non si tratta di una “festa di liberazione” come lo fu il licenziamento di Lionel Hollins quel 10 gennaio di quattro anni fa. Non scherziamo: coach Kenny resterà nella storia della franchigia e nel cuore dei tifosi, questo lo sanno tutti, fan e detrattori, i giocatori attuali come i tanti che sono passati sotto le sue mani in queste stagioni, fino alla dirigenza stessa, le cui parole di elogio, al momento dei saluti, sono state tutto, fuorché di circostanza. Quando fu scritturato, il giovane regista era all’esordio e guidava un manipolo di figuranti senz’arte né parte, capitati quasi per caso nella Lega, in uno scenario da zimbelli e con risorse alle spalle degne di un B-movie senza pretese e senza futuro. Lascia una franchigia tra le più stimate e temute, tra le più futuribili ed ambiziose al mondo. Non tutto è merito suo (alle sue spalle, uno sceneggiatore da Oscar che risponde al nome di Sean Marks), ma gran parte sì, e guai a chi osa discuterlo (ma saranno ben pochi a farlo). Tuttavia non mi sono mai unito alla folta schiera dei suoi lovers, non lo farò certo adesso, quando ancora decantano i furori destati dalla sorpresa e inni di gloria ancora si levano ovunque nel suo nome.

Sono venuto a seppellire Cesare, non a farne l’elogio. Proseguo sulla scia dell’enfasi iniziale, ma senza i doppi fini di Marco Antonio: sono nato e morrò bastian contrario e, dunque, levo la mano solitaria, facendomi largo tra la folla di epigoni e apologeti, per gettare la prima manciata di terra sulle spoglie (sportive e metaforiche, s’intende) di un grande coach, ma non il più adatto per il salto di qualità che attende i bianconeri.

The guards whisperer. La prova a supporto della mia idea nasce proprio dall’apprezzamento incondizionato dei risultati ottenuti: tutti frutto della straordinaria capacità del “nostro” di “sussurrare alle guardie”, sviluppandole e facendone giocatori di razza, così come Robert Redford faceva coi cavalli nel famoso successo cinematografico. Guardate cosa divenne Lyn lavorando con Atkinson, prima delle traversie che ne hanno minato la carriera; guardate cosa sono oggi Levert e D’Angelo Russell, ma soprattutto Dinwiddie e Harris, pietre grezze tirate fuori dalle secche della G-League e raffinate come diamanti. Nessuno può negare che le fortune e le vittorie bianconere siano passate prevalentemente da questi successi individuali. E diciamo anche che la filosofia di gioco del coach ha contribuito grandemente a far crescere questi ragazzi anche sul piano umano e del QI cestistico: la motion offense responsabilizza, costringendo i giocatori a fare le scelte giuste in tempi rapidi. Ma è anche una filosofia vincente?

Lo stratega. Voglio concedergli, dopo la palma di grande formatore dei giovani (esterni), anche il riconoscimento di decente stratega: prova ne siano vittorie insperate e prestazioni confortanti ottenute anche (direi quasi soprattutto) contro squadre apparentemente fuori portata, segno di gare preparate meticolosamente; ricordo il furore di Dinwiddie e soci contro Celtics e Raptors due stagioni fa, in tempi non sospetti di competitività; ricordo le grandi vittorie inanellate lo scorso anno, quando i Nets riemersero dal baratro delle otto L consecutive, seguite al drammatico infortunio di Levert, per infilare quel clamoroso record 20-4, tra dicembre e gennaio, sulle cui fondamenta è stato edificato l’inatteso ritorno ai playoff… Tutto frutto di un gioco brillante e delle tante bocche da fuoco disponibili nell’esercito di Coach Kenny, abile psicologo della resilienza e del riscatto. Perfetto, alla guida di un branco di scavezzacollo; ma per prendere le redini di una contender?

Un pessimo tattico. E veniamo, dopo tanti interrogativi, al rovescio della medaglia: delle 49 (!) partite clutch fatte registrare dai Nets due stagioni fa, il magro bilancio fu di 18-31, per dire. Solo mancanza di personalità ed esperienza da parte della (allora) giovane truppa? Come spiegare allora l’abitudine a subire clamorose rimonte, apparentemente irreversibile e trasversale a tutte le stagioni di Kenny, culminata, proprio quest’anno, nel primato assoluto di vantaggi in doppia cifra dilapidati nel secondo tempo? Come, le clamorose imbarcate contro avversarie non irresistibili, con annesso senso di impotenza trasmesso durante tutto l’arco del match? Due di queste (Hawks e Grizzlies) hanno preceduto di poco il fatidico 7 marzo… In estrema sintesi, un pessimo tattico: quando l’approccio alla partita è stato sbagliato o quando l’avversario ha messo in campo le dovute contromisure, raramente Atkinson ha saputo porvi rimedio; quando l’inerzia girava a favore altrui, troppo spesso lo abbiamo visto disarmato e muto.

Questione di timing. Quante volte abbiamo atteso invano la chiamata di un timeout che arrestasse l’emorragia? Quante volte, dopo una sconfitta, ci siamo chiesti, prima stupiti, poi sgomenti, perché panchinare il giocatore più “caldo” o aspettare tanto per rimetterlo in campo?

Un amante delle sue idee troppo fedele. È la mia accusa più forte: non che io sia all’altezza di mettere Atkinson alla sbarra, sia chiaro; pure rivendico il diritto alla mia opinione cercando di corroborarla con i fatti. Proviamo a ricapitolare.

C’è stato un tempo, che oggi sembra lontano, in cui il quoziente di talento del frontcourt era davvero il peggiore della Lega e, in fase di faticoso rebuilding, era giusto così: ci poteva stare. Più volte si è fatto di necessità virtù, ricorrendo, pertanto, ad uno smallball spinto ai limiti della cosiddetta death lineup (quella di Steve Kerr, per intenderci, ma senza avere nemmeno il profumo di quella qualità), a tratti anche con risultati sorprendenti, riuscendo a rimettere in piedi partite date per perse grazie al furore agonistico e all’intensità difensiva: ricordate i quintetti con Hollis-Jefferson schierato da 4 e Quincy Acy da 5? Bene, ma non benissimo, perché, di lì in poi, lo smallball è divenuto una costante troppo ricorrente e troppo testardamente praticata, risultando scontato e prevedibile.

Poi è venuto il tempo della zone defense e fu un’enorme rivelazione, una novità quasi shoccante, non perché non si fosse mai vista in NBA, ma perché applicata con dovizia e sistematicità da coach Kenny, sempre per far fronte alle difficoltà difensive, soprattutto sui blocchi avversari e nella tenuta sul pick and roll. Anche qui: incassati i primi risultati ed elogi, Atkinson ne ha fatto un vero marchio di fabbrica, con risultati via via meno entusiasmanti, sia perché, nel frattempo, molti altri coach ne hanno esteso lo studio e l’applicazione divenendo bravi nelle contromisure, sia per gli evidenti difetti di comunicazione, timing e sincronismo da parte di alcuni giocatori (penso, in particolare, alla stagione in corso, ai palesi errori di rotazione e cambio da parte della second unit, così come alla lentezza del pivot di turno). Eppure la zona 2-3 ha continuato ad essere applicata in modo pletorico, spesso male e/o fuori tempo massimo, mostrando paradossalmente il fianco in termini di rimbalzi difensivi, fondamentale nel quale i due centri a disposizione primeggerebbero e che, invece, è stato “vittima del sistema”, troppo esposto ai backdoor e troppo tardivo nel riposizionamento sotto canestro.

Potrei, poi, dilungarmi sulla rigidità di Atkinson nel perseguire le sue idee nel timing delle rotazioni, nel minutaggio dei suoi atleti o nella scelta dei quintetti, ma vorrei, invece, soffermarmi su un’altra lacuna un po’ meno discussa: lo sviluppo e la gestione dei big men. E dire che Brook Lopez, indimenticata bandiera bianconera, ha acquisito proprio grazie a un’intuizione di Kenny quella dimensione perimetrale che ne sta facendo un attore protagonista di una squadra da titolo! Così, invece, non è accaduto, ad esempio, con l’occasione Jahil Okafor, cui non fu data mezza opportunità semplicemente perché ritenuto inadatto all’intoccabile filosofia del coach e, soprattutto, con Jarrett Allen, troppo presto battezzato come inabile ad aprire il campo, mai davvero utilizzato in situazioni di post up, praticamente rinchiuso nella sua comfort zone di schiacciatore e stoppatore perché sempre sacrificato, nel rigido schematismo difensivo sui pick and roll, in posizione di attesa nel “corridoio”. E dire che l’apertura alare e la rapidità di piedi di questo ragazzo ne farebbero un potenziale élite center e, invece, rischia di divenire, come proprio da me paventato, carne da trade.

Opinioni? Certo, e tutto senz’altro discutibile, ma gli aggiustamenti apportati da coach Vaughn nelle sole due gare disputate da head coach, pur da prendere con beneficio d’inventario per via del campione troppo esiguo, propendono a supporto di esse. Difesa a zona quasi ridotta a zero, DeAndre Jordan promosso titolare, con Chandler a supporto per aumentare la quota di fisicità senza rinunciare alle spaziature, anzi uso maggiore di blocchi lontano dalla palla per liberare le ali in angolo, switch difensivi accettati solo se obbligati, Prince e Allen preziosi uscendo dal pino. Quest’ultimo, in particolare, ha giocato un ruolo essenziale, pur non brillando in fase realizzativa, nella splendida vittoria a casa Lakers attraverso un suo uso più razionale: maggiore mobilità e raddoppi difensivi (2 palle rubate), uso dei blocchi alternativo a quello tradizionale per rollare, piuttosto per creare il mismatch utile a Dinwiddie per sfruttare il suo primo passo bruciante o a sé medesimo per posizionarsi in anticipo sotto il ferro e catturare carambole (ben 4 in 20′ d’impiego).

Certo, una rondine non fa primavera, così come una vittoria non fa il contratto per coach Vaughn: si cercherà, probabilmente, una figura differente, con già comprovato palmares, fermezza con le star, elasticità nell’adattarsi al loro gioco, personalità per compattare lo spogliatoio e guidare la muta da crisalide a farfalla da titolo. Tutte doti che il buon Kenny Atkinson, il grande traghettatore già consegnato alla storia con encomio, non avrebbe assicurato probabilmente mai.

L'articolo NBA 2019-20: il licenziamento di Atkinson sarà la fortuna dei Brooklyn Nets proviene da All-Around.

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