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“L’ordinario è straordinario”: il tennis secondo Martin Parr

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La recente scomparsa di Martin Parr, ha segnato la conclusione di uno dei percorsi più iconici e influenti della fotografia contemporanea. Nato nel 1952 a Epsom, in Inghilterra, formatosi inizialmente alla scuola di Manchester e membro della celebre agenzia Magnum Photos dagli anni Ottanta, Parr ha costruito in oltre quattro decenni un linguaggio riconoscibilissimo, fatto di colori saturi, ironia tagliente e un’attenzione antropologica per le micro-dinamiche sociali. Non è stato soltanto un fotografo: è stato un interprete del quotidiano, capace di rivelare, con precisione chirurgica, le pieghe più inattese dell’essere umano. Il suo lavoro è un atlante dell’ordinario: spiagge, supermercati, feste di paese, ritrovi turistici, e — negli ultimi anni — lo sport, osservato non attraverso gli atleti, ma attraverso chi lo vive da spettatore.

Nel 2021, in occasione delle ATP Finals di Torino, gli era stata dedicata una mostra personale dal titolo Martin Parr. We Love Sports.
Fra i progetti più significativi della sua ultima fase creativa il libro fotografico Match Point: Tennis with Martin Parr (in partnership con il Gruppo Lavazza) rappresenta un punto di incontro formidabile fra la sua poetica e un immaginario globale: il tennis come rituale estetico, come dispositivo culturale, come teatro sociale.

Il tennis: micorcosmo della contemporaneità

A differenza di altre discipline sportive, il tennis possiede una peculiarità: unisce tradizione aristocratica e spettacolarità pop, regole rigide e spontaneità del tifo, silenzio reverenziale e chiasso da stadio. È uno sport che si gioca tanto nel campo quanto intorno al campo. Parr lo aveva capito perfettamente.

Dal 2014 al 2018 il fotografo britannico riceve un accesso esclusivo per documentare i quattro tornei del Grande Slam — Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e US Open — e capisce immediatamente che il suo soggetto non saranno i campioni, ma gli spettatori. È un’intuizione che attraversa tutta la sua carriera: osservare non ciò che è “importante”, ma ciò che tutti gli altri ignorano; trovare la storia nei margini o ancor di più, tra gli interstizi.

Il pubblico dei tornei è una popolazione transitoria ma altamente codificata. È un universo dove gli accessori contano quanto le emozioni: cappelli, visiere, foulard, occhiali da sole, tazze brandizzate, ventagli, bandierine. Parr li riconosce come segni linguistici, indicatori di identità sociale e culturale. Così come negli anni Ottanta fotografava i bagnanti abbronzati con la pelle lucida di crema solare, ora fotografa spettatori sudati sotto il sole di Melbourne, elegantemente infagottati a Wimbledon, policromi e vibranti nel caldo newyorkese degli US Open. Il tennis, per Parr, non è un evento sportivo, ma un rituale collettivo globale.

Un cromatismo iperbolico

Il colore è sempre stato la cifra distintiva di Parr: vivido, saturo, aggressivo, pop, capace di trasformare un oggetto banale in un manifesto estetico.
Nel contesto tennistico il colore diventa un elemento narrativo: la terra rossa del Roland Garros si deposita sulle scarpe degli spettatori, sul bordo delle sedie, sulle borse lasciate a terra. Non è solo una superficie sportiva, ma una materia poetica che “contamina” il mondo circostante. Il verde impeccabile di Wimbledon crea un contrasto ironico con i palloni pubblicitari, con la plastica degli impermeabili trasparenti. Il blu elettrico dell’Australian Open amplifica il senso di un’arena futuristica, dove i fan sembrano partecipare a un rituale tecnologico più che sportivo. Il cemento dello US Open diventa la scenografia perfetta per la cultura della frenesia metropolitana: code, snack, selfie, movimenti nervosi.

In tutte queste scenografie, Parr vede quello che gli interessa realmente: il consumo come pratica sociale.

L’ironia diventa strumento di indagine antropologica

L’ironia, aspra e acuta, è forse l’aspetto più frainteso della fotografia di Parr: nel 2010 il Telegraph lo descrisse come “un fotografo di fama internazionale, riconosciuto per il suo approccio obliquo al documentario sociale..”. L’intento di Parr era semplicemente quello di catturare il suo rapporto con il mondo attraverso la fotografica.

Molti dei suoi scatti tennistici sono costruiti proprio su contrasti comici o surreali: una signora elegantissima che addenta un sandwich con un’espressione impassibile, un uomo addormentato in tribuna sotto un cappello sproporzionato, una parata di tifosi travestiti in outfit improbabili, perfettamente convinti della loro solennità sportiva, file interminabili dove l’ordine britannico si traduce in un caos compostissimo.
Parr immortala tutto questo non con un atteggiamento di disprezzo, ma con schietta empatia. Il suo scopo non è ridicolizzare, ma mostrare l’umanità nelle sue forme più genuine e autentiche.

Il corpo come luogo di significato

Un altro elemento centrale del progetto è la rappresentazione del corpo. Parr non fotografa il corpo degli atleti — scolpito, in tensione, narrativamente “canonico” — ma il corpo dei tifosi: un corpo “ridicolo” che suda, si arrossa, si piega in pose bizzarre nel tentativo di vedere meglio, che cerca ombra o riparo, che si protegge con cappelli, cappucci, magliette arrotolate.
È un corpo imperfetto, spesso vulnerabile, sempre espressivo.

In questo senso, il lavoro di Parr sembra dialogare con la fotografia documentaria degli anni Settanta e Ottanta, ma con una differenza fondamentale: il corpo non è solo oggetto di rappresentazione, ma segno linguistico, indice di comportamento sociale. Le posture, le espressioni, i piccoli gesti di autocura diventano indizi psicologici e culturali.

Il tennis diventa così una sorta di ecologia del corpo: un sistema di adattamenti, protezioni, strategie informali che raccontano l’individuo immerso nell’esperienza collettiva.

La fotografia è strumento politico del quotidiano

Anche quando non è esplicitamente politico, il lavoro di Parr ha sempre un valore politico. Lo è nella misura in cui rende visibile ciò che la cultura dominante a volte preferisce ignorare.

«Sono molto democratico nella mia fotografia. Ho fotografato la classe operaia, la classe media e l’alta borghesia. Non mi importa quale classe mi si presenti: sono sempre felice di fotografarla.»

Nel contesto degli Slam, questo significa mettere in mostra: la disuguaglianza degli spazi (i settori d’élite contro quelli popolari), la spettacolarizzazione del consumo, la dipendenza dall’immagine e dal selfie, la trasformazione dello sport in brand globale, le aspettative estetiche legate alla classe sociale (soprattutto a Wimbledon).

Parr non lancia messaggi diretti; mostra contraddizioni, costruisce un alfabeto visuale e satirico della società contemporanea.

Il gioco degli sguardi

Parr è maestro nello sfruttare il momento in cui un volto distoglie lo sguardo dal campo. Questo scarto — questo minuscolo intervallo nella liturgia dello sport — è lo spazio dove accade la sua fotografia. Lo spettatore che guarda lo smartphone mentre Nadal serve, il bambino che si distrae, la coppia che discute, la turista che si specchia negli occhiali da sole: sono frammenti di verità. Il tennis, come ogni rito contemporaneo, è costruito sullo sguardo: guardare il match, guardare il pubblico, guardare sé stessi mentre si partecipa al match. Parr smonta questa architettura e ci mostra la complessità di sguardi incrociati che costituiscono l’esperienza sportiva.

C’è una vitalità meravigliosa nei suoi scatti tennistici: persone sedute male, accalcate, sfatte dal caldo, ma vive, profondamente vive. È questa vitalità che costituisce il lascito più commovente della sua opera.

Parr aveva trovato nel tennis un laboratorio ideale: un luogo dove il corpo, il colore, il consumo e la ritualità si intrecciano in una coreografia sociale ricchissima. I suoi scatti trasformano il pubblico in protagonista, il dettaglio in rivelazione, il superfluo in significato. Tutti i colori del tennis sono, alla fine, tutti i colori dell’umanità: pieni di contrasti, di esagerazioni, di fragili bellezze. Parr ce li ha consegnati con la sua lente ironica e affettuosa, ricordandoci che la cultura non si trova solo nei musei o nella storia dell’arte, ma anche — e forse soprattutto — nelle piccole scene di vita collettiva, nei riti condivisi, nelle code al sole, nelle mani sporche di terra rossa.

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