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La Davis e il rebus della formula giusta. Alcaraz la vuole biennale, ma se la soluzione fosse una Final Four?

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Nonostante l’importanza dell’evento in corso, durante le Nitto ATP Finals di Torino non sono mancate le occasioni di parlare della Coppa Davis, di scena questa settimana a Bologna dove per la prima volta vengono ospitate le Final 8 della manifestazione.

Quando Jannik Sinner ha dato il via alle danze, dichiarando di “non aver mai vinto la vera Davis”, più o meno tutti i giocatori e gli addetti ai lavori si sono lasciati andare pubblicamente al giudizio sulla nuova formula del più antico torneo a squadre della storia dello sport (nacque infatti nel 1900), faticosamente alla ricerca di una sua nuova dimensione stabile dopo che il “terremoto Kosmos” ne ha radicalmente modificato la formula dal 2019 in poi.

Non si tratta di una novità, dato sono ormai decenni che ci si interroga sulla natura e sul ruolo della Coppa Davis nel tennis professionistico: prima la formula tradizionale a eliminazione diretta interamente basata sul sistema casa-trasferta, poi il modello “Coppa del Mondo” in sede unica ideato da Kosmos e ora la soluzione ibrida attualmente utilizzata, nessun sistema ha mai soddisfatto a fondo tutti quanti, segno che forse la quadratura di questo cerchio non esiste.

Ma se a fino a non molto tempo fa la maggior parte delle critiche “si limitavano all’invettiva” (cit. De André), ora che la situazione ha già vissuto un numero apprezzabile di iterazioni cominciano ad arrivare anche proposte concrete che potrebbero migliorare la formula in maniera apprezzabile.

L’eliminazione dei gironi all’italiana in sede unica per la seconda fase di qualificazione (che era stata malauguratamente “venduta” come prima fase della Finale) è stato probabilmente un passo avanti perché ha reintrodotto come sistema preponderante quello degli incontri casa-trasferta, che sono un po’ il marchio di fabbrica della Coppa Davis.

Rimane da sistemare il nodo della fase conclusiva, ora programmata con tabellone a otto in sede unica e incontri al meglio dei tre match, che però lascia un po’ il sapore di un piatto cotto al microonde, e forse sarebbe meglio in una modalità più allungata.

Come detto, molto probabilmente la soluzione ideale non esiste e si tratta di trovare il compromesso più accettabile per tutte le parti in causa, quindi vediamo qui di seguito uno per uno gli elementi da tenere in considerazione per vedere quali sono le leve a disposizione per provare a risolvere la questione.

Sostenibilità economica

Capita molto spesso di sentire o leggere commenti di persone indignate, quasi schifate dai rivoluzionamenti subiti dalla Coppa Davis negli ultimi anni che dicono “hanno fatto tutto questo per i soldi” o qualcosa del genere. E per cos’altro dovrebbero farlo? Lo sport professionistico è un business, la Federazione Internazionale (ITF) di fatto campa sulla Coppa Davis, e di conseguenza la componente economica è imprescindibile.

Cercherò di essere ancora più chiaro: qualunque formula/soluzione che non garantisca una sostenibilità economica non può rappresentare una strada praticabile. È inutile perdersi in voli pindarici e sognare formule che non rispondono a questo criterio, perché sarebbe solo un esercizio puramente accademico.

Frequenza della manifestazione

È questa, forse, : la chiave di volta dell’intera vicenda, anche perché si tratta di una questione sollevata pure da Sinner e Alcaraz. La disputa della Coppa Davis su base non annuale presupporrebbe un cambiamento radicale del paradigma economico. Si dovrebbe fare in modo di assicurare agli sponsor sufficiente visibilità nel corso della stagione anche spalmando la competizione su più di un anno. Possibile? Forse sì, se si pensa che Kosmos voleva due appuntamenti l’anno (i Qualifiers di gennaio e la kermesse novembrina con tutte le squadre in sede unica), e la “vecchia Davis” ne prevedeva quattro.

Difficile fare i conti senza avere cifre precise, che la ITF ovviamente si tiene ben vicina al petto, ma la strada per trovare la formula giusta non può che passare per l’ufficio contabilità.

Casa-trasferta vs sede unica

L’essenza della Davis è legata a filo doppio al sistema casa-trasferta. Se gli esperimenti condotti in questi anni ci hanno detto qualcosa, ci hanno sicuramente confermato che la sede unica fatica a sposarsi con l’atmosfera che storicamente è stata associata alla Davis. I vaneggiamenti di “Kosmos” che voleva ricopiare il modello dei Mondiali di Calcio e portarlo nel tennis si sono scontrati con l’impossibilità di ipotizzare migliaia di tifosi che viaggino a seguito della propria nazionale per andarla a sostenere, soprattutto se la manifestazione vuole rimanere a cadenza annuale. Non è difficile pensare che anche per Mondiali di Calcio e Olimpiadi (eventi che hanno una popolarità infinitamente superiore a quella della Davis) il numero di tifosi “itineranti” sarebbe molto minore se si disputassero ogni anno.

Gli incontri in campo neutro hanno certamente un’atmosfera asettica, ma potrebbero anche essere un male necessario per non buttare via i pregi della sede unica per quel che riguarda le fasi finali. La storia della Davis fino al 2019 ci ha detto che una finale che coinvolge solamente due Nazioni dopo che tutte le altre sono state eliminate al massimo a settembre (se non addirittura a luglio) interessa solamente i due Paesi coinvolti e lo zoccolo duro degli appassionati.

Per mantenere viva l’attenzione del pubblico generale e per aumentare la possibilità di avere l’atto conclusivo della Davis che coinvolga il maggior numero di Top players è necessario trovare un sistema che non limiti solo a due il numero di team coinvolti nell’ultima fase della competizione.

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