Caso Sinner-Coppa Davis, l’opportunista mediatico: anatomia di una specie che prospera
Addio, buon caro vecchio giornalista: sei stato soppiantato (o ti sei trasformato) in un opportunista mediatico, e oggi sopravvivi e arranchi nell’ecosistema dell’attenzione.
Negli ultimi anni l’informazione si è spostata da un modello narrativo a uno reattivo. Un tempo l’obiettivo era raccontare, restituire senso; oggi è catturare l’attenzione e creare (re)azioni, il più delle volte misere e insignificanti, che certo non servono a costruire un’opinione pubblica sana e razionale.
In questa logica è chiaro come la qualità di un articolo non si misuri più in base alle leggi della chiarezza espositiva, della correttezza, completezza e coerenza dei contenuti, della deontologia (qualcuno sa ancora cosa significa e come applicarla?), o nella capacità di stimolare lo spirito critico dei lettori, ma piuttosto nell’abilità malevola di generare clic, condivisioni e, soprattutto, forte indignazione — polarizzata e polarizzante.
Non conta cosa dici, ma quanto rumore riesci a produrre e propagare.
Dunque, questo “rumore” diventa indicatore di rilevanza degli argomenti: se una notizia divide, allora funziona. Il commento ponderato, purtroppo, non piace all’algoritmo — troppo sobrio e noioso per i suoi gusti.
In questo nuovo modello informativo, l’obiettività è un ostacolo: ciò che conta è restare nel flusso (feed), anche se genera idiozie. L’opportunista mediatico arriva dove ci sono attriti, vi depone un’opinione-particella pronta all’uso e incassa in interazioni.
Dalla carta stampata ai social, il “caso Sinner”, da tempo in perpetua e ciclica reiterazione, assume di volta in volta valenze e significati diversi, mantenendo però intatto il suo nucleo. In una nevrastenia collettiva senza precedenti si passa dalla retorica del “debito nazionale” — ogni rinuncia viene letta come offesa all’identità collettiva che si riscopre patriottica (la “maglia”, la “patria sportiva”, l’“italianità” puro sangue) — al sospetto sistemico: ogni decisione da parte dell’atleta interpretata come forma di “egoismo” o “freddezza” nei confronti di una non meglio specificata entità poliedrica di cui fanno parte diverse categorie di “pubblico”.
Per terminare nella grammatica della proprietà: “il campione è nostro”, “ci deve qualcosa” e poi ancora nella mistificazione o nell’ occultazione dei fatti.
Si possono così storpiare nomi e cognomi per offendere intenzionalmente o per pura ignoranza, con una sfrontatezza urticante. Ci si può ergere a tribunale morale permanente senza aver mai letto gli atti del dibattito; si possono sputare sentenze come fossero noccioline e puntare il dito contro il nulla.
L’opportunista mediatico sta adombrando chi, in buona fede, con volontà, cultura e passione, racconta il tennis ogni giorno — e mai finirà di farlo.
Forse non vincerà la corsa alla visibilità, ma il suo lavoro resta.
È un modo per ricordare che dietro ogni racconto c’è ancora una responsabilità, anche se alcuni tendono a dimenticarlo.

