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“Il sogno dei sogni” non è solo di Jannik Sinner. E’ un po’ di tutti noi che lo abbiamo tanto atteso

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Dio solo sa quanto ho aspettato questo momento. Non i 51 anni di fila che ho “coperto” da inviato a Wimbledon, perché purtroppo fino al 2021 quando Matteo Berrettini raggiunse la finale, non c’era stato davvero alcuno spazio per illudersi. Panatta nel ’79, Sanguinetti nel ’98, si erano fermati nei quarti. E erano stati quelli che erano andati più avanti di tutti, dopo la semifinale di Pietrangeli nel ’60 quando la seguii bambino già “contagiato” dal tennis nella tv in bianco e nero e dalle telecronache di Giorgio Bellani, che io imitavo facendo le cronache ad alta voce quando giocavo le mie partite contro il muro in campagna immedesimandomi nei campioni dell’epoca: per un colpo ero Rod Laver, per un altro Ken Rosewall, e ogni giorno un duello diverso, due campioni diversi nel rispetto del tabellone che avevo sorteggiato, naturalmente tutte sfide tre set su cinque, impersonando per un colpo uno dei due campioni in lizza e per il colpo successivo l’altro. Una malattia contratta da bambino. Mia madre metteva i tappi alle orecchie per riposare. Ah, il torneo, che durava tutta una estate naturalmente era Wimbledon. E quale altro sennò? Beh, è quello che ha appena vinto, non contro il muro con la riga nera all’altezza della rete, ma contro Carlos Alcaraz, il campione del Roland Garros e di altri quattro Slam, Jannik Sinner. Gli organizzatori di Wimbledon hanno dimenticato di portargli il trofeo appena vinto in sala stampa. Io una simile gaffe non l’avrei mai fatta.

La malattia contratta allora non aveva avuto sfoghi soddisfacenti per troppi anni. Prima come giocatore modesto, poi come giornalista, costretto dagli eventi a scrivere più di sconfitte che di vittorie. E a spiegarle senza riuscire ad evitare – spesso – che gli sconfitti si irritassero.

 Ma negli ultimi 5 anni fra Berrettini, Sinner e Musetti, qualche sogno avevo cominciato a farmelo. Illusioni, ma era già bello poterle nutrire così, dopo così tanti anni ad applaudire soltanto, da Connors 1974 in poi svedesi, americani, tedeschi, svizzeri, spagnoli, inglesi, serbi. Quattordici diversi Paesi avevano celebrato un loro campione. L’Italia no, non c’era andata neppure vicina, salvo che quel primo set di Berrettini contro Djokovic avesse illuso qualcuno. Non il sottoscritto, purtroppo.

Al contrario di tanti, uno fra tutti e fra i più famosi Boris Becker, che avevano considerato la sconfitta di Parigi come una terribile mazzata dalla quale Sinner non avrebbe potuto riprendersi per chissà quanto tempo, io – convinto di aver capito che razza di straordinaria persona sia Jannik-  ero fiducioso e avevo scritto qui su Ubitennis e detto sul canale You Tube di Ubitennis– pur venendo irriso da non pochi – i motivi per cui secondo me sull’erba Jannik avrebbe avuto più chances di farcela dello stesso Alcaraz, sebbene lo spagnolo avesse vinto le ultime due edizioni dei Championships. Carta canta. E i video parlano.

Ieri, in una chat fra colleghi amici avevo pronosticato una vittoria di Sinner in tre set – dopo aver detto la stessa cosa, lasciandolo un po’ perplesso anche a Pat Cash che avevo incontrato in Somerset Road, fuori dai cancelli del retro Wimbledon – ma ammetto che quando Jannik ha perso il primo set in quel modo, dopo essere stato avanti 4-2 in una partita che aveva stentato a decollare, ho avuto paura di aver preso un granchio. Non il primo, di certo non l’ultimo. Mi aveva tradito il cuore, il senso patriottico?

Sì, perché il finale di quel set mi era parso simile, anche se meno travolgente, del finale di cinque settimane fa al Roland Garros. Sia due prodezze di Carlitos, dal 15-0 al 15-30 che avevo evidenziato in rosso sul mio blocnotes cosparso di puntini e di geroglifici che io solo so interpretare (ma anche a distanza di anni…)– è il mio modo di fare i circoletti rossi cari a Rino Tommasi… – per strappare la battuta a Jannik nell’ottavo gioco e raggiungere il 4 pari, sia l’ultimo straordinario punto con cui lo spagnolo aveva saputo rovesciare l’andamento di uno scambio e trasformato il setpoint, in particolare, mi aveva ricordato la sofferta vicenda parigina. Un punto davvero pazzesco. Un’altra pessimistica analogia con la finale di Parigi riguardava il servizio di Jannik: sul 4-5 aveva messo dentro una sola prima palla di servizio su sei. E se a fine set le prime palle erano state il 55 per cento, in quegli ultimi due turni di servizio erano state evidentemente meno di una su due.

 Impossibile pensare di battere Alcaraz, se Jannik non avesse cominciato a servire meglio. Per buona fortuna Alcaraz, rimontato a quel modo un primo set che pareva compromesso, si è distratto per un paio di minuti, come ogni tanto gli succede. Ha cominciato il secondo set con un doppio fallo e un paio di errori: 0-40. Poi due breakpoint annullati, uno dei quali con una palla corta che ha visto nuovamente Sinner scivolare come se avesse le suole sbagliate. Ma poi il break è arrivato. E il game che ha forse, stranamente deciso la partita è stato il successivo, perché Alcaraz ha avuto la palla per il controbreak ma Sinner ha indovinato una battuta a 210 km l’ora , ha scampato il pericolo, ha sofferto un tantino anche per tenere il game del 3-1, ma da quel momento in poi la battuta si è improvvisamente centrata. Nei tre turni successivi ha perso solo 3 punti e nell’ultimo game del set, il decimo, ho segnato ben tre circoletti rossi a sottolineare tre prodezze eccezionali di Jannik, setpoint compreso.

Lì è praticamente girata la partita perché in tutto il terzo set Jannik in 5 turni di battuta ha servito così bene da perdere solo 7 punti, senza che Alcaraz – costretto a difendersi e quindi assai più passivo rispetto al solito -conquistasse uno straccio di pallabreak.

Alcaraz che vantava 35 vittorie a fronte di tre sconfitte sull’erba, le ultime con Medvedev nel 2021 e con Sinner nel 2022, non riusciva a comandare il gioco. Perdeva nuovamente il servizio nel terzo game del quarto set – settimo doppio fallo nel corso del game ma bravissimo Jannik che non aveva mai aggredito in lungolinea di rovescio una battuta di Alcaraz si è deciso a farlo in quel momento e ha conquistato quel break che Alcaraz non avrebbe più rimontato – mentre Sinner nei primi 3 turni del set aveva concesso solo due punti! Cahill riferendosi a quel punto conquistato con quella risposta di rovescio dirà poi: “We have repetitions that we do in the practice that are boring for people to look at, but we need them because we need to hone the skills to make sure that when he has break point in the fourth set and he hasn’t taken one second serve backhand down the line, that he’s got the confidence to do it and break serve, which he did”. Traduzione: “Ripetiamo all’infinito schemi che sono noiosi per chi ci guarda, ma dobbiamo aver la sicurezza che lui abbia l’abilità per fare in partita, anche una sola volta, quello in cui ci esercitiamo. Quando lui ha avuto la palla break del quarto set non aveva ancora attaccato una volta con il rovescio lungolinea…ma lui aveva la fiducia per poterlo fare, l’ha fatto e gli ha fatto il break”. Al che poi Vagnozzi ha detto: “Quella di Jannik è stata la vittoria del coraggio”

Un coraggio che forse ieri Alcaraz non ha avuto. Sul 4-3 però c’è stato l’ultimo momento in cui Alcaraz ha pottuo sognare la rimonta: 15-40 sul servizio di Jannik. Ma di nuovo San Servizio ha aiutato Jannik. Il cronometro segnava 2h e 5, 40-0, 5 minuti quando è arrivato il 5-3. Sentenza finale rinviata al 5-4. 40-0. Ricordate Parigi? Beh quello era uno 0-40…. Qui ci si preoccupa meno per il 40-15. Un secondo dopo…game, set, match, trionfo Jannik, primo italiano nella storia. Premia il principe della Val Pusteria la principessa del Galles, Kate, mentre un altro  principe, William applaude convinto, quasi fosse un giocatore dell’Aston Villa. Lui, Jannik, non piange, Vagnozzi sì, io pure. I colleghi vicini dell’Equipe, sorridono comprensivi. Cerco di distrarmi dalla commozione con qualche numero. Dopo i primi 100 match di Slam Nadal ne aveva vinti 86, Sinner “solo”  81, Federer 80, Djokovic 79, Murray 77. Ragazzi che numeri! E che campioni. Fra loro anche Jannik.

Jannik è un supercampione ma, almeno per ora, non è un grande comunicatore. E noi sogneremmo pure quello, incontentabili come siamo. Come se non bastasse uno che è il n.1 del mondo e vince Wimbledon e non solo Wimbledon. Nelle sue conferenze stampa raramente si sentono cose interessanti, frasi da titolo. “Io non sono un giornalista…” ha l’aria di giustificarsi, ma secondo me non si giustifica affatto. Probabilmente a comunicarci frasi ad effetto, a darci titoli non ci tiene (Perché dovrebbe?), non lo considera importante. “Tanto i giornali io non li leggo” aveva detto l’altro giorno in risposta a Massimo Grilli del Corriere dello Sport che gli chiedeva quale titolo gli sarebbe piaciuto leggere a seguito di una sua qualche impresa. Una risposta secca, bruciante come quelle che fa sul campo da tennis ai servizi che oltrepassano i 200 km orari. Chissà se il suo management, ancora un tantino inesperto, crede che anche con la stampa nazionale si possano – o magari si debbano – fare progressi in termini di comunicazione, seguendo l’esempio di Darren Cahill che non si fa problemi a parlare liberamente per gli amici di ESPN (con cui collabora) e gli altri colleghi australian-americani per raccontare come si è allenato Jannik e se il suo gomito è guarito oppure è ancora malconcio. Con gli italiani era misterioso perfino il luogo dell’allenamento.

Fra le frasi dette ieri da Jannik in una conferenza stampa post trionfo in cui ha ribadito “Ho realizzato il sogno dei sogni” – ecco il titolo! – ma così affrettata che si sono perfino dimenticati di mettergli accanto al microfono il trofeo appena vinto…quella che io ho trovato più significativa è stata: “I don’t think I’m at my best of the best because with 23 I don’t think you can be in your best shape ever. So hopefully I can keep improving”.

Traduco: “Non credo di essere al mio meglo perché a 23 anni non puoi esserlo per sempre. Quindi spero di poter continuare a migliorare”.

E’ l’uomo dei dettagli, quello che pretende la perfezione da se stesso. E dal suo team. Se qualcosa non funziona, lo si molla. Il fine giustifica il mezzo. Machiavelli con racchetta.

Ecco, qui si mostra il vero Sinner. Ha vinto il quarto Slam, il primo Wimbledon, ma l’obiettivo resta un altro: migliorare per vincere ancora, per vincere sempre di più. E per migliorare – Jannik non ha dubbi – non c’è altra strada che lavorare, lavorare, lavorare. A testa bassa, con l’umiltà di sempre, con la miglior squadra possibile. Quella attuale?

Jannik è convinto che lo sia. Parlano i risultati, l’unica cosa che conta. E sorridendo, in risposta a una domanda di Simone Eterno di Eurosport, confessa che con Cahill – che ha preannunciato l’addio a fine anno (in realtà era scappato detto a Jannik…)- ha fatto una scommessa. “Darren mi ha detto: ‘se vinci Wimbledon sei te che deciderai se io resto o no.’ Ora la scelta è mia”. Beh, ha vinto Wimbledon e per Cahill, dopo questi tre anni e mezzo di successi incredibili, la scommessa persa lo costringerà a rivedere la propria posizione. E a continuare a lavorare con Vagnozzi e Jannik, magari diradando le presenze sui tornei europei per restare più spesso con la propria famiglia come desiderava.

Jannik ha vinto il quarto Slam, due Australian Open, un US Open e ora Wimbledon, se avesse trasformato uno dei tre matchpoint a Parigi sarebbe stato in corsa per realizzare il Grande Slam. Vi rendete conto? Sai di che tensione lo avremmo caricato alla vigilia del prossimo US Open?

Intanto ieri sera ha dovuto ballare con Iga Swiatek…non c’è fra loro la love story che nel ’74 ci fu fra i due vincitori di allora Chris Evert e Jimmy Connors. Il problema per Jannik era come affrontare il ballo. “Non sono bravo, ma troverò una soluzione! “ ha detto. Come sempre l’avrà trovata. Senza pestare i piedi a Iga.

Mi piacerebbe che Jannik si rendesse conto della gioia e dell’emozione che ha procurato in tanti di noi. Io credo che non ne abbia idea. Capisco sia difficile per lui pensare a un vecchio cronista che ha vissuto da vicino per mezzo secolo tantissime sconfitte dei suoi connazionali e così poche vittorie. Ho visto l’altra sera Iga Swiatek – che pure poco prima in conferenza aveva ricordato di non avere avuto la stampa polacca molto tenera con lei per via delle sconfitte di quest’ultimo anno- circondata da una quindicina di giornalisti polacchi per una foto ricordo nel teatro delle conferenze. Mi sarebbe piaciuto che una cosa simile fosse accaduto anche con Sinner e con tutti noi inviati, mai così tanti in tutti questi anni. Avevo suggerito alla p.r. di Jannik, Fabienne Benoit, di organizzare una foto “storica” del genere, ma il suggerimento non è stato accolto. Peccato. Però io non dimenticherò, come tutti i colleghi, questa giornata davvero storica per il tennis italiano e per tutti noi che l’abbiamo vissuta così da vicino, con tanti momenti così palpitanti. Non c’era un rappresentante del Governo ad assistere a questo trionfo. Un’occasione mancata. Ma anche in questo caso, secondo me, a Sinner importa il giusto.

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