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Wimbledon: gli “original Next Gen” sull’orlo di una crisi di nervi, anzi oltre

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Correva l’anno 2017, quando l’ATP, con la condivisibile intenzione di assicurarsi un ricambio generazionale che potesse (a livello di risultati, e soprattutto presa sul pubblico dei protagonisti) raccogliere il testimone dei famigerati “Big Three“, si inventò una sorta di “masters” di fine anno riservato ai migliori “under 21” della stagione.

L’esperimento delle “ATP NextGen Finals” ebbe un buon successo, e venne ripetuto negli anni seguenti, apprezzato dagli spettatori, e assai comodo per i giocatori, per cui i cospicui assegni incassati per la partecipazione spesso costituivano un grosso aiuto in una fase della carriera in cui i premi milionari sono ancora ben lontani, a meno di essere un fenomeno di precocità agonistica.

Purtroppo per i ragazzi nati negli Anni ’90, tra cui i primi “Next Gen” di cui sopra, le belle speranze di un futuro di grandi successi (parliamo di titoli Slam, quelli che ti fanno entrare nella storia) non si sono mai concretizzate, a parte poche eccezioni. Solo Thiem e Medvedev, a New York, sono riusciti a vincere un “major“, in condizioni però assolutamente particolari: Dominic nell’edizione 2020, giocata a porte chiuse causa COVID, Daniil nel 2022, facilitato in finale dal crollo emotivo (forse l’unico in carriera) di Djokovic, incapace di gestire la pressione della possibilità di realizzare il Grande Slam.

Per il resto, solo dolorose sconfitte, patite quasi sempre dagli immarcescibili Federer, Nadal e Djokovic, che si sono semplicemente rifiutati di farsi da parte, e hanno continuato a monopolizzare gli Slam ben oltre all’età in cui di norma i tennisti professionisti appendono la racchetta al chiodo.

Non è certo colpa di Roger, Rafa e Nole, ovviamente, se le parti finali delle loro carriere sono state straordinarie quasi come quando erano giovani (per quanto riguarda il serbo, la cosa vale ancora adesso), ma l’impatto psicologico che vent’anni abbondanti di tennis monopolizzati da tre cannibali del genere ha avuto sul resto del circuito è stato devastante.

So che mi attirerò gli strali di tanti appassionati che sono “nativi dei Big Three”, e che si hanno iniziato a seguire il tennis proprio quando prima Federer, poi Nadal, e infine Djokovic hanno dato il via a una scorpacciata di trofei senza precedenti, ma ritengo innegabile che un monopolio di successi simile abbia ragioni che vanno oltre le fenomenali doti tecniche e agonistiche dei suoi esponenti.

Superfici omologate al punto che la pressione da fondo è diventata l’unica strada percorribile per eccellere, rendendo superfluo il saper giocare a tutto campo e a rete, il raddoppio delle teste di serie negli Slam (erano 16), privilegi sia logistici che sportivi (i campi coperti riservati ai campioni), che sono aumentati di anno in anno, hanno reso la vita enormemente più facile ai migliori. E soprattutto, hanno aiutato gli organizzatori dei grandi tornei a minimizzare le probabilità di un’eliminazione precoce di una superstar che garantisce il successo dell’evento.

Negli anni ’90, capitava che pure i fenomeni a volte inciampassero nei primi turni. Si poteva incontrare subito il numero 17 ATP, magari uno spagnolo specialista tremendo da terra battuta a Parigi, oppure un diavolo australiano del serve&volley a Londra, e si andava a casa, anche se eri il campione del mondo. Una volta capito, all’alba degli anni 2000, dei social media, e di una conseguente diffusione mediatica del tennis mai vista prima, che le galline dalle uova d’oro andavano tutelate, non si è più tornati indietro.

I tre “mostri”, per la maggior parte delle loro carriere, hanno vinto e stravinto menando per lo più da dietro, Federer in modo elegante e fluido, Nadal muscolare e potente, Djokovic veloce ed elastico. Ma sempre dei grandi fondocampisti erano, sì, anche Roger, che semplicemente non arrischiava troppo andando a rete, pure a Wimbledon, perchè non era necessario.

Inoltre, dagli Anni ’90 in poi l’aumento progressivo dei guadagni è andato sempre più a rimpinguare le tasche dei giocatori di vertice, aumentando ancora di più un gap già molto consistente, e permettendo a chi già aveva un vantaggio tecnico di renderlo ancora più importante grazie a investimenti in staff specializzato e tecnologie sempre più all’avanguardia. Solo dal 2020, dopo l’era COVID, si è pensato di concentrare gli aumenti di montepremi sugli assegni dei primi turni, in modo da facilitare la sussistenza di quelle centinaia di giocatori che costituiscono la spina dorsale del circuito, ma ormai il danno era fatto, anche perchè l’esplosione dei social media ha moltiplicato le possibilità di monetizzazione per i più forti accentuando ulteriormente il “gap di classe” tra il vertice e i “gregari”.

Il risultato è stata la follia di 66 titoli Slam in tre, che è una cosa negativa sotto ogni aspetto (meno quello mediatico, la conseguente formazione di falangi di tifosi assatanati ha fatto gran comodo a tanta gente). La varietà è il sale dello sport, sapere già chi vincerà non piace a nessuno, a parte gli ultras dei “mostri” in questione. Avere una decina di campioni che vincono 6-7 Slam a testa, battagliando fra loro in modi tecnicamente super variegati a seconda della superficie, ecco, quella è una vera “epoca d’oro”.

Le conseguenze maggiori, purtroppo, le hanno patite due generazioni di giocatori, che hanno passato una vita agonistica lottando per il secondo o terzo posto quando andava bene. Chi gioca lo sa, è durissima diventare la versione migliore di se stessi in queste condizioni. Sotto il rullo compressore sono finiti prima i vari Berdych, Tsonga, Ferrer, Gasquet, Roddick, eccetera, e negli ultimi anni è toccata a Zverev, Rublev, Tsitsipas, Berrettini tra gli altri. La “Next Gen” si è schiantata contro lo stesso muro di quella precedente.

Matteo, qui a Londra, è arrivato letteralmente col morale sotto le scarpe, al culmine di una crisi psicologica che probabilmente maturava da anni.
Tsitsipas tra problemi di testa e di schiena ha addirittura ventilato l’ipotesi di smettere, Zverev ha ammesso senza mezzi termini di essere nel pieno di una depressione molto seria, Rublev combatte contro sé stesso più che contro gli avversari da un bel pezzo. Credo che questi ragazzi siano solo la punta di un iceberg molto grosso: di salute mentale nel tennis professionistico si parla troppo poco, ed è importante tanto quanto la salute del fisico, anzi, può spesso influenzarla in negativo.


La speranza è che il futuro del nostro sport, a partire dai “nuovi mostri” Sinner e Alcaraz, possa essere più “sano” e umanamente gestibile a livello emotivo e mentale, e ci sono segnali incoraggianti. I giocatori ne parlano di più, non è un tabù ammettere di avere certi tipi di disagio, e se la pressione psicologica disumana del dover vincere sempre, tutto, senza cali, come facevano “quei tre” sennò non sei un campione, verrà relegata nel dimenticatoio, beh, sono convinto che non sarà mai troppo presto.

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