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Sinner, Alcaraz e il giorno in cui lo sport e l’umanità vinsero

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Non è un riferimento a nessun lieto fine di un film post apocalittico. Per quanto senza dubbio il dramma e il pathos della finale più lunga (più bella?) della storia del Roland Garros avrebbero ben figurato in una qualsiasi pellicola di Ridley Scott. Ma stiamo parlando “solo” di tennis. Che tra tutti gli sport, come spesso ricorda Sandro Veronesi che di romanzi se ne intende, è quello che meglio si presta al racconto, all’epicità. Al venire tramandato quasi in forma di mito orale. E indubbiamente la partita a cui hanno dato vita Jannik Sinner e Carlos Alcaraz rispetta nella maniera più nobile possibile determinati canoni.

È già passato qualche giorno, ma racchiudere e raccontare a parole certe emozioni richiede la calma e la freddezza della riflessione, più che la travolgente ruota motrice dell’entusiasmo e dell’istinto. Di come la partita si sia svolta, dei grandi colpi e dell’intensità, del servizio da rivedere a tratti di Jannik, dei match point annullati, se ne è scritto in abbondanza. Ma ci sono alcuni frame, meno immediatamente visibili, ma altrettanto (se non di più) importanti, che vanno ripresi e apprezzati. Per capire meglio quello che abbiamo vissuto. E quello che ci aspetta.

Sapersi arbitrare anche da soli

Dopo quattro ore e mezza la lucidità inizia a scemare, la stanchezza conquista il corpo e si fa tutto più complesso. Può capitare che una chiamata dubbia venga sindacata, che si pretenda che una palla fuori fosse in realtà finita dentro. E c’è il rischio di assistere a scene non sempre professionali. Ma, tolte le proteste (giuste e sempre nella norma) di Sinner su un servizio di Carlitos che era effettivamente lungo, l’altra grande bellezza della finale è stata proprio la capacità quasi di arbitrarsi da soli dei due protagonisti.

Senza discutere, guardando e o assecondando o cambiando la decisione arbitrale in base a dove la pallina fosse effettivamente caduta. Un riconoscimento di estremo rispetto tra due giovani che stanno conquistando le vette del tennis, che stanno rendendo presente un futuro che si prospetta il più roseo possibile. Anche con questi episodi di umana, e mai scontata, sportività. Che contribuiscono a rendere ancora più pura e avvolgente la narrazione. Consegnando alla storia una finale che verrà ricordata non solo per i punti sensazionali e le giocate, ma anche e soprattutto per due ragazzi, 23 e 22 anni, capaci di giudicare con maturità e serietà quello che succedeva in campo in una delle partite più importanti della loro vita.

L’emozione di Sinner e…

Per una volta, non la prima ma sicuramente quella più intensa, Jannik ha mostrato in maniera nuda e pura i propri sentimenti. Sentimenti forti, di delusione, di rimpianto, per un’occasione sfuggita davvero di un soffio. Lo ha fatto però con la solita eleganza, sottolineando le qualità di Alcaraz e la bellezza della partita giocata. Anche fermandosi, dopo il match, a fissare il vuoto, sconfitto al termine di 5 ore e mezza di tennis da urlo. Vissuto in prima persona anche dalla madre, spesso inquadrata, a tratti davvero sofferente, nelle fasi calde dell’incontro.

Anche in conferenza stampa, a neanche un’ora dalla fine del match, Sinner è arrivato con il solito stile. Con la maturità di chi sa di aver perso ma è pronto a rimettersi a lavoro per migliorare, e uscire vincitore dall’appuntamento successivo. Come diceva, e come ha ricordato il sempre puntuale collega Riccardo Bisti, Helen Wills: “La compostezza è la cosa più importante che si possa avere nello sport. Se non l’avessi avuta, avrei cercato di coltivarla”. Sinner, in termini di stili e reazioni composte, mai sopra le righe, è ancor più n.1 di quanto non lo sia semplicemente con la racchetta. Gli occhi erano un po’ arrossati nella conferenza, e ha ammesso di aver avuto momenti difficili nell’accettare la delusione e ripartire. “Ma se fossi contento solo di aver preso parte alla finale…vorrebbe dire che non ci sono”. Autocritica, giusta, mai eccessiva. Riflessione onesta sulle situazioni e saper incassare. Una lezione, quasi universitaria, sul saper perdere. Specie con un premio in palio così grosso. E con scene di felicità estrema a pochi metri.

…la gioia incommensurabile di Alcaraz

L’altro lato della medaglia è la reazione di Carlos Alcaraz. Che, di per sé, ha un carattere molto più dinamico e istintivo dell’azzurro. E reagisce alle vittorie in maniera più esaltante, più “da arena”. Anche se dopo una partita di quel tipo crollare a terra in pieno “stile Nadal” è decisamente comprensibile. Un crollo liberatorio, un bagno nel rosso di una terra su cui pian piano sta incidendo il suo nome, con il secondo trionfo consecutivo.

Poi la corsa in tribuna e l’abbraccio, con un “Vamos!” che sembrava provenire dritto dal cuore, a Juan Carlos Ferrero. Che ha anche sorriso nei giorni successivi riferendosi alle voglie di Carlitos: “Può festeggiare, ma deve sempre ricordare che è un professionista”. Perché, dopo tutte le “polemiche” e i commenti vari seguiti all’uscita del suo documentario, Alcaraz ha dimostrato che a modo suo vince eccome. 3 dei 4 grandi tornei sul rosso, escluso Madrid a cui non ha partecipato, portano la sua firma. La firma di un sorriso contagioso ed entusiasmante.

Di un giocatore che sa esaltarsi nella lotta anche cavalcando l’onda del pubblico. Che non è stato scorretto, sicuramente di parte, ma senza mai eccessivamente valicare dei limiti. A tratti si poteva essere più eleganti? Forse, ma accusare di scorrettezza il pubblico del Roland Garros di domenica 8 giugno vuol dire avere la memoria corta su Djokovic-Federer allo US Open…o sul pubblico di New York in generale. Lo spagnolo ha tratto energia positiva dalla situazione, ha reso la sua grinta e la sua voglia benzina per andare avanti. E il segno di commiato è stato battersi il cuore prima della conferenza stampa, con un sorrisone. Ringraziando Sinner dentro al campo e dopo, ma con la classe che spesso nella vittoria si trova più facilmente. Ci aspettano anni d’oro.

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