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Nei giorni di burrasca e in quelli senza vento. Fabio Fognini saluta l’amata Roma per l’ultima volta

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Da Roma, il nostro inviato

Forse sarà una mera coincidenza, forse in fin dei conti no, ma sicuramente è singolare che il nuovo Papa sia stato eletto proprio nel giorno dell’ultima partita a Roma di Fabio Fognini. Il ritiro e l’addio ufficiale non ci sono stati oggi, l’ex n.9 al mondo si regalerà qualche altro mese in giro per il tour, a fare quello che ha sempre amato. Perché sì, Fogna avrà avuto tanti difetti, ma giocare a tennis è sempre stato il suo più grande amore e la sua passione maggiore. Il sogno di un bambino diventato realtà, come lui stesso lo ha definito nell’intervista a seguito della sconfitta contro Fearnley, che ha segnato la fine ufficialmente qui a Roma.

Una “cerimonia” di certo non paragonabile a quella avvenuta a Piazza San Pietro, ma a suo modo emozionante. Parola a Fabio, dopo aver fatto sfilare sui maxi schermi i match point di tutti i titoli conquistati in carriera. Paradossalmente l’ultimo è stato il più importante, a Monte-Carlo nel 2019, come a rimarcare ancora una volta tutto quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Ma siamo sicuri che sia davvero così? Forse la bellezza della carriera di Fognini è proprio in quei non detti, quelle arrabbiature, quelle vette accarezzate ma mai del tutto conquistate.

Unico

Una montagna russa continua, anche al torneo di Roma. Dove ha ottenuto 16 vittorie in 18 partecipazioni, battendo, unica volta nella sua carriera, un n.1 al mondo. Dove ha raggiunto un quarto di finale, lottato e perso solo con Rafa, nel 2018. E lì ha incastonato tanti ricordi di una carriera da portabandiera, principalmente in Davis (“Una ferita ancora aperta, una competizione a cui ho dato tutto”), in anni in cui le cose non erano così felici e così facili.

Fognini non è mai stato un esempio di comportamento, quello forse no. Ma ha sempre saputo comprendere i suoi errori e fare un passo indietro. Da uomo ha costruito una bellissima famiglia con Flavia Pennetta, con 3 figli e un ruolo da padre che è il tempo di iniziare a fare a tempo pieno. Gli occhi lucidi nel tramonto romano umido di un giorno storico non sono lacrime di coccodrillo, né di circostanza. Sono l’effettivo ultimo saluto, l’addio al più importante torneo italiano di colui che, per quasi un decennio, è stato l’italiano più importante.

Non si vive di ricordi e di gloria, è innegabile. E arriva un punto in cui dire basta è la cosa giusta anche per rendere onore ad una carriera vissuta comunque sempre ad alti livelli, con 220 settimane tra i top 20 ATP (15esimo tra i giocatori in attività), issandosi al n.9 al mondo e soprattutto diventando il primo italiano ad aggiudicarsi un Masters 1000. Quando avere due italiani in top 50 sembrava un risultato da celebrare, e un quarto turno Slam era un evento. Altri tempi.

E decisamente più tristi, in parte nostalgici. Nostalgia per chi è stato Fabio Fognini. Un giocatore dal braccio fatato ma a tratti quasi annoiato da ciò che poteva creare. Ma per qualche difetto è ingiusto, come troppo spesso si fa, nascondere i pregi. 31 partite giocate in Coppa Davis, di cui ben 22 vinte, dicono due cose: un livello alto di gioco e un grande amore per la maglia azzurra. E proprio per quello il non figurare, né nel 2023 né nel 2024, tra gli eroi di Malaga, è una ferita. E forse un’ingiustizia. Ma, per quanto abbia parlato senza peli sulla lingua (come sempre ha fatto) della questione, Fabio l’ha lasciata cadere. Perché il passato, purtroppo, non si può cambiare.

Ricordi e rimorsi

Sono tante le cose che riavvolgendo il nastro sarebbe bello poter rendere diverse. Nelle serate di addio come questa affiorano tanti pensieri, tante proposte, tanti rimpianti. Che alla fine vincono su tutto e vanno a sopraffare anche le emozioni di un Centrale preso, commosso, che ha onorato fino in fondo a suon di “Fabio, Fabio!” IL portabandiera. Che ha in realtà sempre preferito il Pietrangeli, “lo stadio degli italiani”. Dove era più facile entrare in modalità gladiatore e trascinare con sé il pubblico. Anche se la vittoria più importante della carriera, e le grandi imprese, sono arrivate sul Centrale.

Dove per l’ultima volta ha sentito su di sé, da giocatore, il vento di Roma. Con i pini all’orizzonte immobili come le statue, nel crepuscolo, a scortare un tennista controverso, particolare, poco ortodosso. Che ne ha fatte di tutti i colori. Ma che per anni ha tirato avanti da protagonista un movimento tennistico in crisi. Quando Sinner era una lontana speranza e Berrettini iniziava ad affacciarsi, vinceva il torneo più importante. Che, fino all’Australian Open 2024, sarebbe rimasto il più importante per il tennis italiano dal 1977 in poi.

Una vittoria all’ultima curva, come a dire “il mio dovere l’ho fatto, ora tocca a voi”. Come ha chiosato anche stasera, quasi imbarazzato dalle troppe attenzioni: “Tutto ha un inizio e tutto ha una fine. A Roma ho bei ricordi, ora tiferò per tutti gli italiani”. Come se avesse voluto fino in fondo lasciare una traccia dietro di sé, una strada da percorrere, a ricordare chi, quando le vacche erano magre per davvero, ha fatto di tutto per coltivare tempi migliori e renderle più grasse. Come in un ultimo moto d’orgoglio. Che, si sa, è l’unico difetto dei supereroi.

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