Wimbledon è la Parigi “Olimpica” del 2025 di Djokovic
La notizia della rinuncia ufficiale di Novak Djokovic all’imminente edizione degli Internazionali d’Italia 2025, dopo aver partecipato a 16 edizioni consecutive, ci fornisce un’informazione certa circa quello che sarà da qui alle prossime settimane il percorso del campionissimo serbo. Lo ritroveremo direttamente a Parigi, lo rivedremo in campo al Roland Garros. Inoltre, le ultime sei partecipazioni a Wimbledon ci dicono che soltanto nel 2018 si è iscritto ad un torneo preparatorio, perdendo in finale al Queen’s da Cilic. Pertanto è lecito pensare che i prossimi due eventi in cui Djokovic sarà in competizione saranno due Slam. Appreso tale stato dell’arte, c’è balenata un’idea: confrontare le modalità con cui Nole approcciò alla grande classica Bois De Boulogne – Church Road un anno fa, rispetto a come ci arriva in questa stagione. Differenze, analogie, vicissitudini e contesti che possono inevitabilmente aver subito mutazioni a distanza di 360 giorni. Scopriamolo insieme.
Il 2024 “rosso” pre Roland Garros
Anzitutto, ciò che balza subito all’occhio se messo in relazione con il 2024 è il peso assai diverso che la stagione sul rosso ha avuto in preparazione al secondo Slam dell’anno. Nell’annata passata pur non raggiungendo vette altissime o risultati veramente di rilievo (per gli standard a cui è abituato), Djokovic disputò complessivamente 9 partite prima di volare in Francia prendendo parte a tre tornei: Montecarlo, Roma e Ginevra. Perciò, nel 2024 ad essere “sacrificato” fu il Masters 1000 di Madrid. Dei nove match giocati ne vinse due terzi. Nel Principato batté Safiullin, Musetti e De Minaur senza cedere set prima di perdere in semifinale contro Ruud ma solamente 6-4 al terzo. Al Foro invece l’esperienza fu decisamente da dimenticare, uscì nettamente all’esordio con Tabilo racimolando appena 5 giochi.
A quel punto proprio in ottica Parigi, per cercare di arrivare più preparato al Roland Garros, Novak scelse di disputare anche il ‘250’ di Ginevra (la settimana antecedente all’Open di Francia) perché avvertiva la necessità di affinare la sua condizione psico-fisica e il suo processo di adattamento alla superficie. In Svizzera superò Hanfmann e Griekspoor, con il primo set della sfida contro l’olandese l’unico test veramente probante che Djokovic si aggiudicò cancellando quattro set point nel decimo game prima di trovare il break decisivo nel successivo gioco. Dopodiché, la sua settimana in terra elvetica si concluse ai quarti con l’eliminazione per mano di Machac dove il campione di Belgrado reagì al set perso in avvio rifilando un bagel al ceco prima di dirsi soddisfatto per la fase di preparazione svolta e togliere il piede dall’acceleratore della concentrazione agonistica (era lì per ispessire la forma non per vincere il torneo), di fatto subendo un 6-1 senza sostanzialmente giocare.
Quando sei alla fine d’improvviso non ritrovi più te stesso
Perché come ci ha insegnato a più riprese in carriera compreso alcune puntate negli ultimi anni, Nole possiede la capacità – per pochissimi fenomeni della storia di questo sport – di riaccendere la luce quando vuole, in questa precisa fase della carriera quando gli interessa. Lo ha fatto capire senza giri di parole nel Media Day a Montecarlo: “Obiettivi e aspettative per la stagione sul rosso? Il Roland Garros“. Secco e inequivocabile, tutto il resto è un inframezzo. Ossia quando lo stimolo torna a riappropriarsi di lui, quando riavverte nuovamente quella adrenalina necessaria a competere per un unico obiettivo, il solo che ha conosciuto nella sua esistenza da atleta: la vittoria finale, la conquista del trofeo e poi di quello che viene dopo. Così all’infinto, il tutto realizzato nei palcoscenici di più alto rango del tennis. Tutto meravigliosamente e clamorosamente soprannaturale, ad uso e consumo esclusivo di coloro che sono protagonisti delle pagine di storia.
A questa presa di coscienza della brutale forza che Djokovic ha seminato anche nel recente passato, c’è un però che cresce ogni giorno sempre di più. Quell’aggettivo, infinito: l’ingranaggio difettoso che in un meccanismo perfetto sta assumendo il controllo con sempre superiore ed irrefrenabile facilità. Il tempo, il tempo che passa e che quando hai vent’anni è un amico felice che ti sta accanto senza che nemmeno tu te ne accorga, quando però la candeline che verranno presto spente – esattamente fra diciannove dì – diranno 38 tutto diventa irrimediabilmente più difficile da affrontare. Ora al tuo fianco hai una spina che preme inesorabilmente sulla pelle in maniera sempre più decisa, il fastidio che provi si infittisce e a poco poco quel dolore diventa insostenibile. Può lacerarti a tal punto da dover dire basta, oppure – e forse è anche peggio – da non permetterti più di riconoscere te stesso. Quello che fino al giorno prima eri, il giorno dopo non lo sei più.
Se il 2024 ci ha detto che Djokovic avesse ancora pienamente nel suo bagaglio la lampadina pronta a ritrovare se stessa quando conta per davvero, questo non vuol dire necessariamente che trascorso un anno possa riaccadere ancora una volta. Quando sei alla fine, il finale ti travolge fragorosamente nello stesso momento, un istante e tutto finisce senza che neppure tu abbia ricevuto segnali di avvertimento. Anche se poi più di qualche piccolo campanello è già suonato, sembra di rivedere il Djoker del 2018 (peraltro non a caso sua ultima stagione prima di questa in cui perse per due volte in fila all’esordio di un torneo) quello che sorride alla sconfitta, quello che dopo aver perso abbraccia l’avversario con gioia. Beh se uno che ha fatto della fame e della cattiveria agonistica ai massimi livelli i suoi cavalli di battaglia comincia a ripudiare anche inconsciamente la ribellione alla sconfitta, il rifiuto di uscire dal campo battuto, quando la sconfitta diventa normale routine per uno come Novak Djokovic si apre una voragine. Uno squarcio insanabile e dal quale c’è un solo epilogo: il ritiro. Un punto di arrivo però fisiologico. La motivazione, l’ambizione di rimpinguare la sua collezione con nuovi gioielli, la sua ferrea volontà di conquistare ulteriori nuovi record per chi come lui ha fatto dell’ossessione il mantra esistenziale: che scemino un po’ fa parte della natura umana, che si impigriscano dopo aver ottenuto l’unica cosa che mancava, il metallo più prezioso nella cornice dei cinque cerchi, è comprensibile.
La percezione di Nole
Tornando al paragone 2024-2025: giunto a Parigi Djokovic si trasformò, ritornò a brillare di luca propria e pur faticando molto più di ciò che accadeva quando dominava incontrastato, si fermò ai quarti di finale per ritiro e Ruud avanzò in semifinale. Riavvolgiamo il nastro, al terzo turno rimontò Musetti in svantaggio 2 set a 1 spuntandola 6-0 al quinto. In ottavi praticamente da infortunato vinse un altro match al quinto con Cerundolo, ancora una volta era sotto 2-1. L’infortunio patito – lesione al menisco del ginocchio destro – lo costrinse all’operazione chirurgica, dalla quale tutti gli addetti ai lavori e gli esperti del settore individuavano in una convalescenza di tre settimane il periodo di recupero: in sostanza si adduceva l’impossibilità di Novak di essere in gara a Wimbledon.
Invece, meno di un mese dopo non solo Djokovic si presentò ma si spinse addirittura sino alla finale. Un’impresa cominciata all’indomani dell’intervento, iniziando a fare fisioterapia quando un normale essere umano sarebbe stato ancora allettato. Quel primo vagito di capolavoro si sublimò con la titanica cavalcata nella Parigi olimpica, fino allo scontro finale con Alcaraz in cui Nole espresse un livello pauroso. Perciò la percezione che Djokovic ha di se stesso corroborata dagli ultimi Slam disputati, escludendo lo US Open che dei quattro Major è sicuramente quello a cui è meno legato, lo ha convinto e lo convince di poter essere ancora altamente competitivo in specifiche condizioni. Lo sappiamo infatti tutti che gli Slam sono una roba a sé, il 3 su 5 è uno sport diverso e in quel contesto agonistico il margine di Djokovic sugli avversari è sicuramente maggiore che in altri eventi del circuito, dove invece ultimamente si è livellato parecchio: per esperienza, possibilità di gestire e dispiegare le energie in un raggio tempistico più ampio, per bravura nel controllare la centrifuga emotiva delle due settimane da ogni punto di vista. Pressioni, aspettative, day off che per quanto adesso con i Mille’ allungati molti più tennisti ci abbiano preso la mano; in uno Slam tutto assume un sapore differente.
Anche l’Open d’Australia di qualche mese fa alimenta il pensiero di Novak, il suo ego agonistico ha ancora una forte ascendenza sul proprio io poiché in cuor suo (forse) si dice: “A Parigi sono uscito perché rotto, a Wimbledon dopo essermi operato appena qualche settimana prima ho fatto finale. A Melbourne ho sconfitto Carlos giocando una partita di straordinario livello pur avendo già avvertito qualche fastidio e mi sono ritirato ancora una volta perché infortunato (problema muscolare alla coscia sinistra) contro Zverev”. Cioè, in sintesi, se sto bene negli Slam valgo ancora la prima fila. La brillantezza e la freschezza atletica non saranno più quelle di un tempo, ma come dimostra anche la finale di Miami fisicamente ci sono. Sono ancora competitivo per vincere il venticinquesimo, a parte Sinner, il miglior Alcaraz e il miglior Zverev – che quest’anno, soprattutto per il tedesco post Australia, in tali versioni non si praticamente quasi mai visti – io sono tutt’ora superiore al resto della ciurma.
Parigi o Londra dove può riscrivere ancora la storia
Il problema però è come detto il diverso modo in cui arriva a competere al Roland Garros, due sole partite perse peraltro malamente con Tabilo a Montecarlo e con Arnaldi a Madrid a fronte di 6 vittorie, una semi ‘1000’ e un quarto ATP (il bottino del 2024) basteranno per rivedere un Djokovic competitivo, in grado di arrivare in fondo e giocarsela con tutti? I dubbi sono tanti, in primis il ventaglio di avversari che può batterlo è superiore a quello che potrebbe essere nella testa del serbo. Ad esempio, il Lorenzo Musetti di queste settimane se si dovesse ritrovare ad un solo set dalla vittoria su Djokovic, come successo nel 2024 e nel 2021, siamo sicuri che subirebbe ancora una rimonta, con la autostima e la fiducia mentale che il sentirsi un Top 10 ti trasmette? Uno Tsitsipas in giornata che magari non lapida situazioni di punteggio corpose, siamo sicuri che anche lui se dovesse ritrovarsi ad un solo set dal vincere come accaduto nella finale del 2021 cederebbe al rientro di Nole? Sascha Zverev che ritrovasse se stesso dopo un periodo di buio pesto, proprio in quello Slam che tanto gli ha tolto ma che tanto anche gli ha dato (la vittoria su Nadal e la finale con Alcaraz) siamo sicuri sarebbe alla fine della fiera addomesticabile per questo Djokovic? Un Fran Cerundolo che per una volta non si spegne di testa quando c’è da cogliere una grossa opportunità (Madrid in tal senso ha già dato una prima risposta) siamo sicuri si scioglierebbe di nuovo dinanzi a un cospicuo vantaggio? Per non parlare di tutti quei ragazzetti che sono venuti fuori nell’ultimo periodo e che stanno dimostrando di cavarsela piuttosto bene anche su terra, da Mensik a Draper, o dell’usato sicuro di un Casper Ruud o di un Holger Rune che avesse la stessa voglia di stare in partita dimostrata a Barcellona.
La conclusione di questo panegirico è dunque la seguente: a Parigi per Nole se vorrà arrivare alle battute finali, sorteggio permettendo, visto come ci arriva servirà veramente una prova che rasenti la perfezione, anzi che vada oltre il concetto di perfetto dissipando i limiti mentali e fisici palesati post finale olimpica. Ecco che però se rapportiamo l’analisi sopra riportata sul valore degli avversari rispetto all’attuale livello di Novak Djokovic in proiezione Wimbledon, il contesto si fa decisamente più interessante per il serbo. E’ innegabile che il plotone di tennisti in grado di batterlo, allo stato corrente della vicenda, a Parigi divenga una ristrettissima cerchia a Londra. In primis, il margine è più corposo sui diretti concorrenti – come lo è negli Slam rispetto ad altri tornei – a Wimbledon più che negli altri Major per una semplice questione di abitudine. Sui prati si gioca pochissimo e quindi le nuove leve avrebbero ancora scarsa esperienza per estrometterlo in una vetrina del genere, a parte forse un grande Draper che su erba per stile di gioco e manualità potrebbe compiere la sorpresa. Inoltre alcuni spauracchi da rosso (gente che ha fatto finale al Roland Garros), come Zverev, Tsitsipas o Ruud a Wimbledon si fanno fuori da soli.
Se staccasse Court e agganciasse Federer, Coup de Théatre alla Sampras o seguirebbe la natura tennistica?
Per cui diciamo così, in una sorta di proporzione tennistica: la Parigi Olimpica del 2024 risuona in Djokovic come Wimbledon 2025 potrebbe risuonare di nuovo in Nole per dare un senso ad una stagione, per dare un senso alla decisione di continuare individuando un unico traguardo da raggiungere e in cui mettere tutto se stesso. Se dovesse veramente staccare anche Margaret Court, oltre che agganciare Roger alla cima dell’albo d’oro dei Championships, saluterebbe tutti come molti invocavano già al termine di un eventuale successo – poi effettivamente ottenuto – alle Olimpiadi o continuerebbe a vedersi sbiadire fino a quando a chiudere la saracinesca non sia una sconfitta contro un avversario per mancanza di competitività ma una sconfitta con il proprio corpo, come prima di lui è accaduto a Federer e Nadal? Ma sappiamo come i Big Three si siano auto-alimentanti a vicenda, come siano cresciuti, con che tipo di mentalità. Se vinco uno Slam vuol dire che ne posso vincere un altro, perché allora fermarsi?
D’altra parte è la natura del tennista, unica eccezione alla regola Pistol Pete quando trionfò allo US Open del 2002 superando Agassi in finale nella “partita” per antonomasia di quell’epoca salvo poi non rimettere più piede in campo. La sconfitta ripetuta non viene interpretata come l’avvisaglia che il dirupo improvviso indichi la fine del percorso, anche per chi come Roger, Rafa e Nole non è mai stato così tanto abituato a cadere. Perché quando erano ancora ragazzi con un destino da scrivere in cui poter essere tutto, quando ancora non erano i Big Three, sono stati allevati dal tennis che per per 30 anni e oltre ha poi dimostrato loro che anche alcuni tra i più grandi di tutti i tempi perdono. La sconfitta è insita nella natura del tennista, quindi non verrà mai vista come il segnale della fine. Anzi Djokovic in questo momento, per quanto la odierà per sempre, quasi la desidera, l’accoglie perché significa: “Sono ancora un tennista, non è finita!”.