La docuserie di Netflix su Carlos Alcaraz è un insegnamento continuo: il racconto dietro al fenomeno spagnolo
Recentemente Netflix ha lanciato attraverso la propria piattaforma una docuserie di tre episodi molto interessante su Carlos Alcaraz. Sebbene non sia facile dedicare un prodotto così ricco di spunti su un ragazzo che non ha ancora nemmeno festeggiato i 22 anni, Netflix è riuscita a creare un qualcosa di valido e molto profondo. Non si tratta di un’esaltazione a Carlos e ciò che ha vinto, d’altronde basterebbe godersi una sua qualsiasi partita per comprendere il suo talento, anche da non esperti del settore. Piuttosto ha sottolineato quell’ingenua incoscienza di un ragazzo che ha paura di non vivere una vita normale, spesso bersagliato dalle critiche a fin di bene del suo staff e dei grandi del passato che temono non si renda conto del suo immenso talento. In realtà Carlos lo sa bene, è consapevole che certe scelte che prende sono fuori dall’ordinario, ma lui le ritiene necessario affinché possa continuare. E in questo caso non esiste la ragione: tutti ce l’hanno, nessuno ce l’ha. Paradossalmente nemmeno il campo poiché il tennis è uno sport che va oltre alla disciplina in sé, è un modo di intendere la vita.
Il folle equilibrio di Alcaraz: da Ibiza a Wimbledon
Immaginate di andare 3/4 giorni ad Ibiza, girare tutte le discoteche del “paese dei balocchi” per eccellenza della Spagna per poi tornare su un campo da tennis e vincere prima il Queen’s e poi Wimbledon. Alcuni di noi nemmeno riuscirebbero a passare indenni le tre notti a Ibiza, figurarsi concludere con la vittoria dello Slam più importante e iconico del tennis battendo in finale uno dei (se non il) tennista più forte della storia. Eppure per Carlos è stata normalità, quasi come se senza Ibiza non ci sarebbe stato Wimbledon.
A quanto pare però tutto ciò non è una scienza esatta e l’anno successivo Alcaraz ha ripetuto l'”esperimento” in un periodo differenze e i risultati sono stati ben al di sotto delle aspettative: “Fisicamente non era pronto e il ritorno diretto da Ibiza senza la preparazione necessaria ha influito sulle sue prestazioni”. Naturalmente i media hanno sottolineato la scarsa professionalità di Alcaraz a riguardo e più di una tirata d’orecchie dallo staff è stata fatta.
Un altro atteggiamento che fa storcere il naso a molti riguardo Alcaraz è il suo non sapere dire no, come quando si è impuntato per andare a vedere la Formula 1 nonostante Ferrero avesse chiesto gentilmente di non farlo poiché non era il momento adatto. Alcaraz era stato categorico, esattamente come per Ibiza: “Io ci andrò, punto“.
L’idea di molti, anche coloro che lavorano insieme a Carlos, è che lui non sia disposto a fare i sacrifici dei vari Djokovic, Nadal e Federer, come se Alcaraz si accontentasse. La cosa paradossale è che il suo “accontentarsi” lo ha portato ad aver già vinto 3 dei 4 Slam totali a soli 21 anni. “Ho 21 anni e voglio fare le cose a modo mio – spiega Alcaraz -, magari non spingendomi come lui (riferendosi a Nadal). Voglio prendermi tanti giorni per divertirmi, magari più di quanto dovrei. Alla fine voglio fare a modo mio, per me è necessario ogni tanto dimenticarmi di essere un tennista”.
Il problema però riguarda il lungo periodo, la paura del suo coach Juan Carlos Ferrero è proprio quella: “Ho qualche dubbio che così diventerà davvero il migliore della storia, mantenere questi risultati alla lunga è complicato”. Eppure Federer è stato uno dei pochi che in qualche modo ha spezzato una lancia nei confronti di Carlos: “Ogni tanto è importante prendersi una pausa, così si è più felici di tornare sotto i riflettori“.
“Schiavo del tennis” – la frase clou che divide in molti
Ferrero non ha troppi dubbi a riguardo: “Per poter diventare il migliore della storia devi essere uno schiavo, oppure devi accettare che non raggiungerai il massimo delle tue possibilità“. Anche l’ex tennista Garbiñe Muguruza, due volte campionessa Slam, ha usato parole simile, spiegando come raggiungere i Big Three sia quasi “Impensabile“.
A proposito, a Madrid Novak Djokovic nella consueta conferenza stampa pre torneo ha parlato proprio del termine “schiavo del tennis”. “Capisco che sia una parola forte, ma comprendo cosa intenda Carlos. Il tennis è uno sport individuale e richiede il 100% delle tue energie fisiche, mentali ed emotive. È molto più che colpire una palla. Ti porta via anni della tua vita, ma alla fine è una tua scelta. Sappiamo che ci sono persone in situazioni molto più dure, quindi non voglio sembrare arrogante. Siamo fortunati a fare ciò che amiamo. Certo, non è facile. Una delle difficoltà maggiori è la durata della stagione, la più lunga di tutti gli sport globali: inizia a gennaio e finisce quasi a dicembre. E con i Masters 1000 che durano due settimane, ormai abbiamo quasi 12 Slam all’anno. Quindi sì, può essere stancante e logorante. Ma ci sono anche tante gratificazioni. È giusto riconoscere entrambe le facce. Capisco quello che ha detto Carlos, anche se forse ha scelto un termine un po’ duro“.
Come se non bastasse, il titolo della serie (“A modo mio“) e del secondo episodio (“Non sono Rafa“) sono abbastanza eloquenti. Carlos vuole diventare il miglior tennista della storia? Sì, certo, è lui stesso che lo ripete più volte durante la docuserie. Ma lo vuole fare alla sua maniera, senza dedicarsi “solo” al tennis, ma “anche“. In un passaggio infatti Alcaraz dice testuali parole: “La mia vera paura è quella di vedere il tennis come un obbligo“.
Se avrà ragione lo potrà dire solo il tempo, anche se Alcaraz ha fatto capire di non essere così ossessionato dalla vittoria, piuttosto della sua felicità. Non è un caso che per tutta la serie Alcaraz non abbia mai usato un termine forte per parlare di rincorrere la vittoria, piuttosto un “desiderio” o “una voglia di dimostrare”, come capitato dopo il break nel terzo set della seconda finale di Wimbledon contro Djokovic doveva aveva sprecato tre match point oppure quando si è ritrovato contro Sinner in semifinale del Roland Garros, entrambi acciaccati, ma con la voglia di prevalere sull’altro.
Sinner e Alcaraz, la rivalità perfetta
Ecco, dato che ha menzionato Sinner, non possiamo non approfondire il discorso. Anche perché lo stesso Jannik è presente nella serie che esordisce così: “Tra me e lui c’è rivalità, c’è tanta attenzione su di noi e sale la tensione. Come me lui ha vinto tanto, finché vincerà le mie sessioni di allenamento saranno più intense“. In sostanza, lo stesso che pensa anche Alcaraz: “Mi aiuta a migliorare, mi stimola affinché io possa batterlo, è l’avversario più difficile da affrontare“.
Una delle partite che forse più descrive Alcaraz e il suo salto in avanti è stata proprio quella citata in precedenza contro Sinner in semifinale di Roland Garros. Carlos arrivava da un periodo complicato a causa dei problemi all’avambraccio destro, tra l’altro il suo braccio forte. Il suo blocco mentale nel riuscire a tirare forte o no lo aveva già fatto perdere contro Rublev ai quarti di Madrid. Oppure al Roland Garros contro Djokovic quando i crampi presero il sopravvento. Insomma, questo mix di problemi fisici è come se effettivamente bloccassero più del previsto lo spagnolo che da sempre ha sofferto di questa sorta di “freno a mano tirato” in corrispondenza al dolore fisico. Contro Sinner però quella volta Alcaraz gettò il cuore oltre l’ostacolo e da quel momento ha capito che per diventare numero uno e restarci, così come per combattere per gli Slam in maniera costante negli anni, bisogna alzare l’asticella della soglia del dolore, spingendo al massimo.
Alcaraz e l’importanza dello staff
Molto toccante il racconto dei vari membri dello staff, di come raccontano che il loro obiettivo è quello di far coesistere la felicità di Alcaraz con il raggiungimento dei risultati. Ferrero è stato molto chiaro: “Se non se la sente e vuole puntar ad essere il numero 15 al mondo, abbasseremo le aspettative, ma in tal caso sarebbe veramente dura per me“.
In questa parte si nota una sorta di avvertimento del suo coach, come a dire: “O punti al massimo o io mi faccio da parte”. Alcaraz in ogni caso sembra avvertire queste cose, dalla docuserie dà proprio l’impressione di essere un ragazzo sveglio. Perciò una delle ultime scene è proprio quella di Carlos che parla con il cuore in mano a Ferrero, dicendo che sente il bisogno sia di giorni di riposo sia di allenamento, oltre che si rende conto che a volte esagera nelle richieste. Ferrero d’altro canto si è dimostrato molto comprensivo, come d’altronde dovrebbe fare un allenatore, spiegando come sia fondamentale imparare dai propri errori (vedesi Ibiza) e che la vera sfida è trovare un equilibrio tra riposo, allenamento e motivazioni, sottolineando che è molto difficile riuscirci ma che può farcela, con tanto di un abbraccio a rendere tutto più umano.
Perché quello che ci ha insegnato Alcaraz è proprio questo: essere umani nonostante per tutti lui sia effettivamente un qualcosa di paranormale, quasi alieno, un supereroe capace letteralmente di riscrivere la storia di un sport ultracentenario nel giro di 20 anni di vita, nemmeno di carriera. Molto bella infatti la parte riservata al suo staff, come abbiamo accennato in precedenza, dove per esempio Juanjo Moreno, il suo fisioterapista, ha detto: “Carlos mi ha insegnato a vivere i momenti di gioia, ho imparato molto da lui, da quando lo conosco mi sento una persona più felice e rilassata, questo ci fa sentire come una famiglia“. A dimostrazione di come dietro ad ogni grande atleta, ci sono sempre persone almeno altrettanto importanti.