Da vincere sporco a perdere con eleganza
Di Conor Casey, pubblicato da Substack il 26 marzo 2025 (traduzione di Lorenzo Zantedeschi)
Il tennis una volta era figo. Il carisma, i completi, le rivalità – Chrissy contro Martina, Andre contro Pete, Federer contro Nadal, Serena contro il mondo – come un mito greco. Le personalità, le sedi dei tornei, il sex appeal – il tennis andava alla grande, eppure, adesso nel 2025, sembra sull’orlo del collasso. – Oppure stiamo bene? È davvero difficile dirlo, ma le cose sono sicuramente in evoluzione. Per esempio: Djokovic e la sua PTPA stanno facendo causa all’ATP e alla WTA, sostenendo che i
giocatori sono maltrattati, sottopagati, e che gli organi di governo sono una cricca. Entrambi i numeri uno al mondo, Jannik Sinner e Iga Swiatek, sono stati beccati dall’antidoping. Il doppio è in bancarotta e si regge segretamente sulle spalle del singolare, e il pickleball sta rubando i campi da tennis mentre i giocatori si rivolgono all’opzione “più
facile”. Come è arrivato il nostro sport in una situazione così confusa, e dove diamine sta andando?
Forse la risposta si trova nelle persone che stanno dietro i giocatori: gli allenatori che hanno plasmato intere generazioni. Non allenatori qualsiasi – quelli che hanno agito come diapason umano per la
frequenza dominante del gioco. Gli Allenatori. Se riusciamo a capire chi erano le voci dominanti del nostro gioco, cosa rappresentavano e come, inevitabilmente, la generazione successiva sia arrivata e – invece di seguirle – sia andata contro di esse, forse possiamo capire cosa fosse il
tennis – e quale sia ancora il suo potenziale. Nell’arco della mia vita ho visto questo sport passare dal militarismo americano di Nick
Bollettieri negli anni ’80, all’empirismo tattico basato sulle statistiche di Brad Gilbert negli anni ’90 e primi anni 2000, al periodo di Federer-come-divinità-zen dove il concetto di allenatore stesso sembrava superfluo, fino alla situazione odierna di contenuti brandizzati gestito da Patrick Mouratoglou alias The Coach (il suo nome utente di
Instagram). Ecco come questi allenatori non solo hanno plasmato, ma incarnato gli ultimi 40 anni di tennis – e uno sguardo a dove – se possono essere degli indicatori – lo sport potrebbe dirigersi.
1980 – metà anni ’90: Nick Bollettieri – La macchina da guerra americana in versione M-frames
A meno che tu non abbia vissuto all’interno di un tubo di palline Pro Penn mai aperto dal 1982, conosci il nome Nick Bollettieri. Nick. L’abbronzatura. Il mito. La leggenda (RIP). Colui che ha prelevato il piccolo Andre Agassi dal deserto di Las Vegas e lo ha plasmato nella sua palude della Florida/iconico campo di addestramento tennistico
“Bollettieri”; la Mecca del tennis negli anni ’80 e primi anni ’90.
Nick, che non è mai stato un giocatore, era in origine un venditore di auto usate del New Jersey – e si vede. Il suo talento non stava tanto nella tecnica o nella strategia, quanto nella visione. E per visione intendo: farti credere fin dove puoi arrivare, non nell’auto scassata che userai per andarci. Un vero visionario del tennis: Nick vedeva le racchette in grafite e le teste oversize, e capiva che il futuro del tennis si sarebbe combattuto dalla linea di fondo. In un’epoca dominata da eleganti specialisti del serve and volley, Nick portò il gioco di potenza – taglio militare, occhiali Oakley a specchio, petto perennemente in vista –
sfondò i cancelli del tennis e lo trascinò, a torso nudo, fuori dal country club e dentro l’arena.
La sua accademia non era tanto un luogo di apprendimento quanto un centro di trasformazione – da bambino a soldato. I suoi allievi non venivano allenati, venivano armati con dritti killer, rovescio balistico e servizi atomici (tutti disponibili su VHS! e anche su BETA!). Andre Agassi. Jim Courier. Jennifer Capriati. Monica Seles. Tutti prodotti del sogno folle
di un uomo deciso a fare quello che l’America sa fare meglio: trasformare ogni cosa in una guerra. Il suo genio era lo spettacolo. Storia vera. Un mio amico fece una lezione con Nick. “Tieni gli occhi sulla palla,” gli
disse Nick. Tutto qui. Quella fu l’intera lezione. Il mio amico era sconvolto, non tanto per il consiglio in sé, ma perché nessun altro coach gliel’aveva mai detto prima! Prova vivente che non conta cosa dici, ma chi lo dice. Col tempo, il movimento “colpisci forte e credi in te stesso” di Nick, seppur ancora influente in molti aspetti, ha cominciato a mostrare le sue crepe. Sono nate accademie simili, e il modello del coach autoritario ha cominciato a produrre più danni che benefici.
Andre è andato in burnout, Capriati ha iniziato a rubare nei negozi.
Il tennis era pronto per un cambiamento. Dalla faccia… alla testa.
Metà anni ’90 – metà anni 2000: Brad Gilbert – Una mente brutta
Se Bollettieri costruiva macchine da guerra, il tennista professionista americano diventato coach, Brad Gilbert, costruiva maestri di scacchi.
Era l’anti-Nick in ogni senso immaginabile – appartato, nell’ombra, con il cappello da sole, l’aria di un impiegato del retrobottega catapultato sul campo. Lo stile di gioco e di coaching di Gilbert è stato descritto (giustamente) come “brutto”: poco ortodosso, privo di eleganza – ma indiscutibilmente efficace. I suoi colpi erano una sorta di anti-poesia. Il suo gioco di gambe sembrava allergico al ritmo. Colpiva piano,
lasciava che l’avversario servisse per primo – giocava d’astuzia. Eppure, arrivò al numero 4 del mondo. Dopo il ritiro dal tour, la sua dottrina di allenatore era semplice: non devi colpire meglio. Devi pensare meglio.
Il suo libro Winning Ugly (il miglior libro mai scritto sulla strategia nel tennis) spiegava esattamente come farlo, diventando rapidamente una sorta di scrittura sacra per ogni junior che non poteva permettersi un dritto alla Bollettieri.
Leggerlo era come essere iniziati a un ordine segreto di disadattati: i pensatori, quelli che tiravano pallonetti, i lottatori senza talento.
Gilbert riportò in vita il golden boy di Nick, Agassi, e gli mostrò come raggiungere il suo vero potenziale – non attraverso le ripetizioni o i rituali, ma attraverso i piani. Diede al tennis il permesso di essere intelligente. Ci insegnò che l’astuzia poteva essere letale
quanto la potenza. E per un po’… ha funzionato. Il tennis è diventato riflessivo. Introspettivo. Psicologico. Il problema di condividere i propri segreti è che, prima o poi, tutti li imparano. E li neutralizzano. In poco tempo, il vangelo secondo Gilbert era diventato la norma, e “il tennis è una questione mentale!” una frase fatta. Man mano che il “brutto” svaniva, il gioco diventava… bello.
Anni 2000 – metà anni 2010: Roger Federer – WWRFD (What Would Roger Federer Do -> Cosa Farebbe Roger Federer)
Questo è un curioso frammento di tempo, in cui, per un po’, il tennis non aveva bisogno di un coach. Aveva Roger Federer. Federer non si è limitato a dominare questo sport – lo ha trasformato in un’arte, qualcosa che sembrava potesse essere fatto solo da lui. Per gran parte della sua carriera (apparentemente) non ha avuto un allenatore, spingendo tutti a chiedersi: e se fosse proprio il non avere un coach il segreto per
giocare il tuo miglior tennis? Per molti versi, è stato l’ultimo che abbiamo amato per la sua bellezza. Non solo quella da spot dello shampoo – anche se, sì, pure quella – ma la bellezza di come si muoveva, di come sembrava preoccuparsi più del come vinceva che del se vinceva.
Giocava con l’ego sereno di chi crede che il pubblico meriti un certo livello di estetica – e glielo offriva. A volte, anche a costo del risultato.
E lo amavamo per questo. Forse perché, dando un’occhiata a Nadal, e un’altra a Djokovic, sapevamo che il tennis stava cambiando. Che presto la bellezza avrebbe lasciato il posto alle macchine. Ai dati. Che la grazia avrebbe ceduto alla fatica.
Federer è stato l’ultimo a farci sentire che il tennis fosse qualcosa di sacro. Durante l’era Federer, i coach diventavano superflui. Facoltativi. Ornamentali. I tutorial su YouTube e gli sparapalle prendevano il posto dei mentori. Il libro di Gilbert stava ancora lì, sul comodino – ma, ormai, solo per fare atmosfera. E quando il Federer umano ha iniziato il suo lento tramonto, e i robot da fondo campo guidati da Djokovic e Nadal hanno preso il controllo dei campi, proprio in quel momento,
l’algoritmo del tennis ha costruito il suo Frankenstein: The Coach.
Da metà anni 2010 – oggi: Patrick Mouratoglou. L’Allenatore Influencer
Patrick Mouratoglou, alias The Coach (letteralmente il suo nome utente Instagram) cammina come uno che ha appena vinto un’asta da Sotheby’s e non vede l’ora che qualcuno gli chieda come ha fatto. Non è emerso attraverso i tornei del circuito. Non si è fatto le ossa nei Futures né ha
giocato a tennis al college (neanche per qualche oscura università di serie D3 tipo i Northern Eastern South Dakota White Claws). Francese, secondo quanto racconta nel suo libro (The Coach – una lettura da bordo piscina più che dignitosa), ha iniziato con un piccolo prestito… sotto forma di hotel, da parte del padre magnate dell’hotellerie, e ha costruito quello che potremmo definire come un impero estetico del tennis. Mouratoglou è ciò che Chat GPT genererebbe se gli chiedessi: “Crea un coach di tennis ottimizzato per l’integrazione con brand di lusso.”
È curato, preciso, rifinito. Bello. Illuminato dagli algoritmi. Curato fino all’ultimo dettaglio – e parlando di dettagli: le sue magliette sono strettissime, e disponibili con spedizione gratuita… se ordini subito.
Il suo accento è abbastanza ambiguo da risultare internazionale.
Ha trasformato il tennis in un’esperienza elegante, ispirazionale, da rifugi di lusso – l’esperienza olistica ad alte prestazioni definitiva, quella che ti farà vivere più a lungo (e magari incontrare anche quell’attore che faceva Dwight in The Office… se sai, sai). A suo merito, sa allenare. È salito alla ribalta guidando la GOAT Serena Williams nel prolungamento della sua epoca d’oro. Ma il momento in cui ci ha conquistati (o almeno ha conquistato me), è stato agli US Open 2018, quando, dopo una violazione per coaching con Serena, gli venne chiesto se stesse effettivamente dando istruzioni (N.d.T. non consentito al tempo). Rispose
semplicemente: “Sì, stavo facendo coaching.” Era così disarmante nella sua sincerità che praticamente ha resettato il matrix del tennis.
Mouratoglou ha inaugurato l’era dei coach e dei giocatori come brand.
Le sue accademie sono immacolate. I suoi contenuti curati alla perfezione, illuminati da faretti angelici, prodotti a un ritmo che nemmeno il DOGE Coin di Musk riuscirebbe a tenere.
Adora fare reaction ai contenuti degli altri coach, come se li benedicesse dall’alto del suo Olimpo – oppure, forse, sta solo cercando di assorbire i loro follower, come un Dracula del tennis… difficile da dire, ma del resto la verità è sfuggente nell’epoca degli influencer. Caso emblematico: il suo impero ha recentemente lanciato il progetto UTS, l’Ultimate Tennis Showdown – una versione rinnovata del tennis, con nuove regole, nuovo
punteggio e tutta una nuova estetica. È veloce, brillante – pensata per l’era dominante degli highlight reels. Ed è, senza dubbio, uno spettacolo godibile per i fan più appassionati che vogliono un approccio diverso al tennis. Ma solleva una domanda scomoda: perché il tennis ha
bisogno di essere reinventato, in primo luogo? È davvero innovazione – o è un segnale di panico da parte di uno sport che sa, in cuor suo, di stare lentamente morendo? Che cosa sa The Coach che noi non sappiamo?
2025 – ?? : (Allenatore sconosciuto) – Tennis Decostruito
Cosa c’è dopo?
Se Nick era potenza, Brad, cervello, Patrick, perfezione tennistica costruita… allora secondo lo schema di reazione avversa, stiamo entrando nell’era del tennis decostruito. Oggi, il tennis siede sullo scaffale come una vecchia racchetta di legno che tua nonna
non permette a nessuno di usare. Il tennis professionistico è ancora nobile, sì, e bello in certa luce, ma sempre più distaccato dalla vita di cui dovrebbe far parte. Ciò che stanno facendo in TV non è ciò che sta accadendo nella lega di tennis di Rosemary. Sembra che il tennis si stia crepando – non di colpo ma con una serie di piccole fratture
discrete, innegabili: scandali di doping sepolti silenziosamente… crack.
L’ATP e la PTPA che litigano passivamente per il potere come i tuoi genitori che giocano in doppio e discutono su di chi è la palla in mezzo… crack. La lenta, ascesa, intrisa di serotonina, del pickleball, che sembra come se il centro anziani del tuo quartiere stesse cercando di rovesciare Sparta – e ci stesse riuscendo… crack.
Quella perfetta racchetta da tennis in legno si sta incrinando, e nessuno vuole ammetterlo. Perché se lo ammettiamo, allora dobbiamo anche ammettere che qualcosa deve cambiare. Ma ecco quel qualcosa – il kintsugi, quell’antica arte giapponese di riparare ceramiche
rotte con l’oro, non nasconde il danno. Lo evidenzia. Le cicatrici diventano la storia. E forse l’oro, per il tennis, è l’onestà. E forse l’onestà, almeno all’inizio, è profondamente, profondamente brutta. Il che ci riporta al lato brutto dell’umanità – Internet. E Patrick. E l’allenamento nell’era del “contenuto.” Perché se l’era attuale è l’allenatore-come-influencer – perfettamente curato – allora forse ciò che viene dopo è una reazione contro tutto questo. Non una cancellazione di Internet (non si andrebbe da nessuna parte) ma un tipo diverso di voce su Internet. Una che non sta cercando di venderci il sogno della perfezione, ma di mostrarci il lavoro effettivo del divenire.
L’ansia. L’illusione. L’esperienza IRL (N.d.T. in-real-life). Gli attacchi di panico alle 3 del mattino in una stanza d’albergo. Forse ciò che sta arrivando è il ritorno del crudo. Una nuova voce che guarda nello
specchio incrinato e dice: “Sì, sono io.” Non curato. Non raffinato. Ma vero. Mentre posso solo immaginare dove sia diretto il futuro, e non abbiamo ancora visto emergere una nuova voce dominante tra gli allenatori, non ho dubbi che questo momento nel tennis sembri più un caos che un consolidamento, come se stessimo lanciando palline da tennis contro il muro solo per vedere cosa rimane attaccato, e iniziando a chiederci se, in realtà, il muro stesso debba cambiare.
Se c’è una cosa che so, e lo dico con quel tipo di certezza riluttante che viene solo con l’iniziare a giocare a tennis all’età di 3 anni, crescendo desiderando di poter andare all’accademia di tennis Bollettieri, leggendo Winning Ugly prima di tutti gli altri nel mio gruppo di coetanei, adorando Federer, e odiando il fatto che mi piace un po’ The Coach anche se non assomiglia a nessuno o a niente che abbia mai sperimentato nel mondo
del tennis, è questa: penso che sarebbe bellissimo se rendessimo il tennis di nuovo brutto.