Notizie

Parigi 2024, Vavassori: “Non c’è più la cultura della sconfitta. Ma io voglio riprovare a vincere una medaglia a Los Angeles”

0 3

Lo sguardo perso nel vuoto, in un silenzio pieno di significato, il collega che passa lì vicino e ti dà una pacca sulla spalla per rincuorarti. I tennisti sono tra gli sportivi più “perdenti” che ci siano, si perde ogni settimana, a meno di non essere tra i pochissimi eletti che vincono il torneo. Ma non ci si abitua mai, soprattutto in quelle occasioni alle quali si tiene davvero tanto.

Andrea Vavassori ha sempre avuto come sogno quello di partecipare alle Olimpiadi, anche se nel tennis, il suo sport, le Olimpiadi non sono necessariamente il torneo più importante o più prestigioso. “Però quando giochi e vedi quei cinque cerchi dietro al tuo avversario…” ci racconta prima di scoppiare in un pianto liberatore, consolato dalla sua compagna Sara Errani.

Andrea e Sara hanno appena perso il match dei quarti di finale di doppio misto al torneo olimpico contro Koolhof/Schuurs, dovendo così abbandonare i sogni di medaglia.

Abbiamo dato tutto – ha detto Vavassori alla stampa italiana dopo essere uscito dal campo – partita difficile, con due giocatori che sanno giocare bene in doppio. Sapevamo di dover fare bene nei colpi dopo il servizio. Siamo stati molto bravi a vincere il primo set dopo che eravamo andati due volte sotto di un break, siamo stati un po’ sfortunati nel secondo quando abbiamo preso un break sul mio servizio con due colpi un po’ sfortunati, poi non siamo più riusciti a recuperarlo. E alla fine il super tie-break che sappiamo girare sempre su un punto o due.

Nel finale di partita abbiamo giocato bene, poi però il match point è girato strano…” Quel diritto, oggettivamente facile, sbagliato da Vavassori sull’ultimo punto probabilmente turberà alcune delle sue prossime notti. “E che devo fare? Mettermi una corda al collo? Si sbaglia…

Eh, ma era quasi un rigore…”, ha insistito il nostro Ubaldo Scanagatta, pungendo Vavassori nel vivo: “Ma come ti aspetti che risponda a questa domanda?”

Credo che abbiamo fatto una buona partita, secondo me non potevamo fare più di così. Non c’è più la cultura della sconfitta, perché se avessi vinto quel punto lì adesso io sarei qui a prendermi i complimenti. Invece sbaglio quel diritto e tu mi chiedi ‘cosa hai fatto su quel rigore lì?’ Mi dispiace tanto, ma lo sto notando negli ultimi giorni, guardando anche la polemica che ha coinvolto Benedetta Pilato ed Elisa Di Francisca. Ci sono sempre dei motivi per dare addosso al giocatore, non c’è più l’apprezzamento del percorso, si guarda solo alla vittoria e alla sconfitta.”

Non si apprezza più la persona e il suo percorso per arrivare a un certo livello. Arrivare alle Olimpiadi dovrebbe significare l’essere una persona con dei valori. O medaglia, o sei un fallito.”

Ora darò tutto quello che ho per arrivare a Los Angeles e portare a casa una medaglia, e se non ci riuscirò farò di tutto per arrivare all’Olimpiade successiva.

Ciò che fa maturare una persona è il percorso. Pilato non pensava di arrivare a medaglia, solo che tutti si aspettavano una medaglia da lei e quindi è una fallita perché non ha vinto una medaglia. Non è così. Ora lei darà tutto quello che ha per arrivare a medaglia la prossima Olimpiade, o quella dopo.”

La medaglia è importante per i tifosi, ma bisogna dare credito a chi vince la medaglia, non dare addosso a chi non la vince. Quello che ha detto Pilato dovrebbe essere una cosa normale, invece viene crocifissa. Perché ha detto una cosa normale.”

La riflessione di Andrea Vavassori, pur arrivata in un momento di grande coinvolgimento emotivo, è tuttavia molto pertinente e descrive uno degli aspetti della nostra società. Soprattutto in un periodo di bulimia competitiva come quello olimpico, il risultato non è più importante, ma diventa l’unica cosa che conta. Se nel tiro con l’arco non arriva la medaglia, via che con un click si passa all’ultimo turno dei tuffi sincronizzati dove magari si riesce a rimediare un po’ di metallo prezioso. È normale, per chi aspetta le Olimpiadi da tifoso, ma bisognerebbe capire anche la storia dell’atleta dietro alla prestazione.

È vero, la legge dello sport è durissima, così come la legge dei media: si fa notizia solo se si vince, e la storia è una bella storia solo se ha il lieto fine. E nessuno dovrebbe capirlo più di un’atleta.

Una volta il team manager di un’importante società di Serie A mi disse: “Chi lavora per una società sportiva deve essere consapevole che se quel tiro al novantaduesimo prende il palo e va in gol siamo tutti dei fenomeni, mentre se quello stesso tiro dopo aver preso il palo va fuori siamo tutti dei deficienti. È un fatto che bisogna accettare se si lavora in questo business”.

Magari è un po’ estremizzato, ma il concetto rimane. Ovviamente la persona che si occupa delle divise o chi organizza le trasferte con pullman, voli e alberghi non ha alcuna responsabilità di dove vada quel famoso tiro, eppure la valutazione del suo lavoro, indirettamente, passa attraverso quel gol mancato o meno.

E per gli atleti, soprattutto quelli individuali come i tennisti, la situazione non è troppo dissimile. “Voi giornalisti coprite i tornei che coprite, vedete alcune partite e traete le vostre conclusioni – disse una volta Andy Roddick durante una delle sue conferenze stampa verso la fine della carriera – Ma quello che vedete fa parte di un processo che ha durate molto più lunghe, e del quale le partite che voi vedete nei vari tornei sono solo delle tappe.”

Trust the process”, si ripetono sempre i giocatori, soprattutto mentre stanno attraversando momenti di scarsi risultati. Fidati del processo, continua ad allenarti nella maniera che ritieni migliore, e prima o poi i risultati arriveranno.

E soprattutto in uno sport come il tennis, nel quale i “checkpoint” sono frequenti e pubblici, il rischio di essere valutati per una prestazione che dovrebbe essere solamente una fase di ‘lavori in corso’ è grande. Perché giudicare un giocatore sulla base di alcuni match, e ovviamente dai risultati degli stessi, è un po’ come formulare un giudizio di un film dopo averne visti dieci fotogrammi. Difficile farlo in maniera sensata se non si sa come si passa da un fotogramma all’altro.

Questo dovrebbe essere il ruolo nostro, quello dei media. Spiegare cosa succede tra un fotogramma e l’altro, perché magari siamo riusciti a vederne qualcuno in più, e capire come interpolare i pezzi disponibili stimando la configurazione di quelli mancanti. Tuttavia il mondo ha deciso che i media non servono più, che basta seguire i campioni sui social media e leggere i commenti di “Martin99” su Instagram per capire come gira il mondo. Senza sapere se Martin99 di film se ne intende o meno, o se i fotogrammi visti siano di buona definizione o tutti appannati.

La “mancanza di cultura della sconfitta” di cui parla Vavassori è quel tipo di miopia ingigantita dai social che fa sì che tutti possano esprimere giudizi negativi su un atleta perdente, perché non si capisce per quale motivo quella sconfitta sia in realtà un passo avanti nel processo di cui sopra. La nostra società, iperfocalizzata sul risultato in tempi brevissimi, non importa come, ne è gravemente affetta. Noi di Ubitennis, nel nostro piccolissimo, cerchiamo di combatterla. Con scarsi risultati, a giudicare dai commenti che riceviamo. Ma continuiamo. Per tutti i Vavassori di questo mondo, e anche per noi, perché siamo convinti che un mondo con la “cultura della sconfitta” sia un mondo migliore.

Comments

Комментарии для сайта Cackle
Загрузка...

More news:

Read on Sportsweek.org:

Altri sport

Sponsored