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Provaci ancora Ben: Shelton è lo studente USA della terra rossa che aspetta il suo momento-

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Qual è la differenza tra un dentifricio e un tennista americano sulla terra battuta? Nessuna, sono entrambi per-denti. Al di là della freddura dal discutibile coefficiente umoristico, la realtà non è così lontana, con i tempi di Andrè Agassi e Jim Courier nell’album dei ricordi sbiaditi e la sequela di diversi anni di buio su questa superficie. Eppur, qualcosa, si muove. Ci ha pensato Taylor Fritz a sottolineare in passato il lassismo con cui i suoi connazionali approcciavano alla stagione sul rosso, ma non è il solo. Il suo exploit a Roma, insieme a quello di Tommy Paul, non è un risultato su cui pontificare ma una speranzosa base di partenza a cui il movimento USA deve dare seguito. Chi ha fatto del volere è potere il proprio motto è Ben Shelton: stesso passaporto dei sopraccitati e con una voglia matta di riscrivere la storia.

Tagliare il cordone ombelicale con il passato: Ben Shelton e la voglia di essere unico

Per riscrivere la storia, bisogna conoscerla. Il massimo appuntamento su terra rossa è il Roland Garros e quando Andrè Agassi ha inciso il suo nome nell’albo d’oro per la prima e ultima volta era il 1999, e Ben non era neanche nei pensieri di Shelton senior, Bryan. Il successo di Flipper nell’ultimo anno prima dell’avvento del terzo millennio è anche l’ultima affermazione di un tennista statunitense nello Slam caratterizzato dall’epopea di Rafael Nadal. E nelle briciole lasciate dallo spagnolo non figura neanche lontanamente un commensale americano all’altezza. Papà Bryan è stato un discreto tennista, capace di arrampicarsi fino alla posizione numero 55 del ranking ma senza lasciare particolari tracce nelle prove slam, dove il massimo risultato è stato un quarto turno a Wimbledon nel 1994.

“The apple doesn’t fall far from the tree”. Espressione praticamente invariata del nostro “la mela non cade mai lontana dall’albero”. In questo caso nei piani di Ben c’è la voglia di fare sicuramente qualche rotolio in più rispetto a Bryan, sa benissimo che per riuscirci dovrà essere un giocatore completo anche sulle superfici avverse. Lo era la terra rossa per papà Shelton, secondo turno al Roland Garros nel 1994 e tanti rammarichi postumi su questo amore mai sbocciato. “Mi sono reso conto troppo tardi che il mio gioco vi si adattava bene. Avevo un grande kick-serve. Potevo spingere i giocatori indietro. Aprivo il campo”. Le ammissioni di colpa sono uno dei migliori lasciti che un padre possa tramandare ad un figlio, con Shelton junior intenzionato a non commettere gli stessi errori ed essere diverso. Quello in realtà, da tutti.

Volevo essere un po’ diverso da tutti gli altri” è una frase un po’ inflazionata, soprattutto nel mondo sportivo, dove ogni atleta cerca di scavare il proprio solco e registrare la propria personalissima impronta. In questo caso Ben Shelton stava commentando la propria decisione di essere il testimonial di On, piccolo ma crescente marchio di scarpe e abbigliamento svizzero, a discapito del più noto brand sportivo americano con il baffo. E’ difficile recidere il cordone ombelicale con la massa, tracciare la propria strada ed essere riconosciuti dagli altri come unico. Non si può dire che il classe 2002 non ci stia provando, e alcuni fatti lo confermano.

Scelte che vanno in controtendenza con quelle canoniche. Ben sembra fisicamente benedetto dagli astri, sui cui può anche aver inciso la poli-sportività. Non è rara tra gli atleti di spicco, ma non così protratta nel tempo, con quel football americano che ha sempre praticato e che era restio ad abbandonarlo fino alla middle school, dove alla fine ha ceduto il passo alla racchetta. Anche nel percorso evolutivo tennistico, evidentemente coadiuvato già da Bryan, si è optato per altro. Il college della Florida preferito alle accademie di tennis e il circuito juniores completamente saltato per emergere direttamente tra i grandi, in barba a tutti i puristi. Ora il ragazzo di Atlanta si è messo in testa di emergere sulla terra rossa, e la sua esultanza a fine match, quella chiamata potrebbe essere rivolta agli specialisti della superficie: “Aspettatemi, sto arrivando”.

Ben lo studioso : il lavoro di Shelton per diventare grande sul rosso

“E’ come una spugna”. Musica e parole di Gabriel Echevarria, indirizzate al proprio assistito per elogiarne le qualità di apprendimento. Se il nome non vi dice niente è colui che con una decennale esperienza alla U.S. Tennis Association da un anno a questa parte è in pianta stabile nello staff di Shelton come preparatore atletico. Le origini argentine di questo professionista non sono casuali e suggeriscono anche tanto, su quale sia una delle tante missioni che gli è stata affidata: scoperchiare il vaso di Pandora e rivelare a Ben i segreti del gioco su terra battuta. Sì, perché nonostante il successo nell’ATP 250 di Houston il rosso è ancora una materia inesplorata e la capacità di coglierne tutte le sue variegate sfumature è ancora allo stato grezzo.

Non potrebbe essere diversamente con un giocatore che ha fatto la conoscenza di questa superficie molto tardi, basti considerare che fino ai 16 anni non aveva mai calcato campi del genere e le recenti sconfitte contro Zhang a Roma e quella con Cobolli a Ginevra sono solo la venticinquesima e ventiseiesima partita ufficiale disputata sulla terra rossa, includendo il Challenger di Cagliari dello scorso anno ed il battesimo avvenuto in un M15 di Weston giocato in Florida.

Il gioco di Ben potrebbe suggerire di lasciar perdere, di concentrarsi sulle stagioni sull’erba e sul duro ma il georgiano da quell’orecchio non ci sente e prima di partire per il 1000 di Madrid, dove verrà battuto al terzo set da Bublik, traduce in sostanza quella che è una soft skill che può spostare gli equilibri: la voglia di lavorare, di apprendere e di migliorarsi. Shelton insieme al suo staff, tra cui Echevarria sopracitato, partecipa ad un campo di due settimane su terra battuta dove si focalizza su tutto il necessario per affrontare la stagione in rosso, sia sotto il profilo tecnico che quello mentale. L’americano non è per niente demoralizzato da quello che ancora non gli riesce come vorrebbe, anzi come un bimbo incuriosito che scopre il mondo porge l’orecchio a quell’argentino che gli fa da mentore.

“Se apprendiamo le abilità, possiamo sviluppare le abilità, ma la prima cosa da apprendere è il modo giusto”. Il modo giusto, secondo Echevarria, riguarda lo scivolamento, il muoversi tra un punto e l’altro, con il gioco di piede a farla da padrone. Il preparatore atletico argentino sta cercando di inculcare a Ben come correre in diagonale, come spesso serve sulla terra battuta in relazione all’alta percentuale di drop shot e di slice giocati. La spugna sembra recepire, perché il classe 2002 stando alle sue dichiarazioni a The Atlantic sta iniziando a prendere consapevolezza delle insidie che nasconde il mare magnum della terra rossa.

“I campi in terra battuta sono diversi rispetto a quelli in cemento duro, non puoi fare le stesse cose. A loro volta, ogni campo in terra battuta è un po’ diverso. I rimbalzi sono impronosticabili, quindi non puoi sempre fare affidamento sul rimbalzo corto, prendendo la palla prima. Puoi avvicinarti al rimbalzo o piantare i tuoi piedi troppo presto e il rimbalzo sarà impossibile da predire e va in una direzione che non pensavi andasse. Hai un po’ più di tempo di giocare il colpo perché, in molti posti, la terra battuta è più lenta rispetto ai campi duri, anche se a Madrid è molto veloce. Anche se nella maggioranza dei casi, il gioco è più rallentato. Hai più tempo, e la cosa mi piace. Ma allo stesso tempo devi imparare come usare quel tempo e imparare a difendere contro giocatori che allo stesso modo hanno più tempo”

Lettura, analisi, elaborazione finale. Il classe 2002 sa quello che deve fare, è in modalità studente e la terra rossa, nonostante sia stata ostica nelle tappe di avvicinamento a Parigi, è un esame senza scadenza da superare sulla lunga distanza. “Non saremmo frustrati. Non siamo preoccupati delle sconfitte, perché il Roland Garros si giocherà sulla terra battuta il prossimo anno, e per i prossimi cento anni ancora”. Il team Shelton non ha fretta, il movimento USA non coglie un successo sul Philippe Chatrier da un quarto di secolo e dell’attesa ne ha fatto una virtù: Ben ha un appuntamento con la storia.

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