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Tiro a segno, la nuova vita di Niccolò Campriani: allena un team di rifugiati, obiettivo Olimpiadi 2020

Niccolò Campriani ha intrapreso una nuova sfida, il Campione Olimpico di tiro a segno ha ufficialmente abbandonato la carriera agonistica e ora allena un gruppo di atleti rifugiati nel percorso di qualificazione ai Giochi di Tokyo 2020. Sarà un anno intensisimo per il 31enne, la preparazione è incominciata a fine marzo e il progetto è seguito dalle telecamere di Olympic Channel che trasmetteranno poi una serie tv “Taking Refuge” all’inizio del prossimo anno.

Il toscano, che lavora per il CIO dal 2017 e attualmente risiede a Losanna, ha raccontato la sua missione: “Tutto è partito dall’ultimo colpo che ho tirato a Rio. Quella medaglia d’oro in realtà avrebbe dovuto essere d’argento, visto che avevo vinto per uno sbaglio del mio avversario. In quel momento facevo fatica ad essere identificato come campione olimpico in quella specialità (carabina a 50m) e per cercare di fare pace un po’ con me stesso avevo deciso di donare la differenza di premio tra l’argento e l’oro all’Agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione della crisi dei rifugiati. Qualche tempo più tardi venni invitato dalla stessa UNHCR a Meheba in Zambia per visitare uno dei maggiori campi per rifugiati in Africa. Quella fu un’esperienza molto forte e gratificante“.

Campriani spiega nel dettaglio in cosa consiste il suo progetto: “L’idea all’inizio era cominciare ad aiutare un paio di ragazzi rifugiati a raggiungere il punteggio minimo di qualificazione olimpica per Tokyo nella mia disciplina, che è la carabina ad aria compressa da 10 metri. L’idea era quella di far vedere che da campione olimpico hai accesso a un network unico, hai un opportunità di raggiungere velocemente un grande numero di persone nel caso di raccolta fondi. L’obiettivo è quello di ispirare il prossimo campione olimpico, che non deve essere per forza del tiro e non deve essere per forza italiano, a fare la stessa cosa con la propria comunità di rifugiati. Alla fine è uno scenario ‘win win’ dove aiuti questi ragazzi a integrarsi attraverso lo sport, ma allo stesso tempo fai qualcosa di buona per te stesso. Una delle difficoltà maggiori per molti atleti che si sono ritirati è quella di trovare degli obiettivi e delle nuove motivazioni, qualcosa che rappresenti uno stimolo vero“.

Il tiratore è diventato come un fratello maggiore per questi tre rifugiati: “Il mio ruolo di atleta e campione olimpico non si esaurisce quando tiro il mio ultimo colpo di gara in un’Olimpiade. Essere chiamato campione olimpico è una responsabilità ma anche un’opportunità unica perché sei un role model e in quanto tale hai il potere di influenzare le persone intorno a te. Non è solo una questione di buoni propositi. Quindi anche per me è un modo prima di tutto per fare un po’ pace con il mio sport. Dopo la finale Olimpica di Rio non avevo più tirato nemmeno un colpo, perché ero saturo e come succede spesso nello sport di elite tutto diventa un’ossessione“.

Gli obiettivi sono chiari: “L’obiettivo è qualificarsi, anche se l’obiettivo vero è poi quello di vivere questa esperienza insieme. Io ci ho messo quasi due anni per raggiungere il punteggio minimo di qualificazione olimpica. Questo non vuol dire che vai automaticamente alle Olimpiadi, ma che hai i requisiti per essere selezionato come wild card. Questi ragazzi si stanno allenando di fatto in isolamento: non siamo in un poligono, ma in un centro per il tiro con l’arco. Quindi non vedono altri tiratori che possono copiare e non possono confrontarsi. L’unico riferimento sono io quando faccio delle gare insieme a loro. Se le cose vanno come dovrebbero, almeno uno dei ragazzi dovrebbe arrivare a Tokyo. Lo si saprà a giugno quando l’Executive Board annuncerà il team di rifugiati. Il progetto non penso finirà mai, per quello che ho vissuto finora e che vivrò anche il prossimo anno credo che rimarrò in contatto per sempre con questi ragazzi“.

 

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Foto: ISSF

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