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C’è vita anche dopo l’apnea: la piccola lezione di “Mimosa non è un fiore”, storia di cadute nel fango e di rinascite

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C’è vita anche dopo l’apnea: la piccola lezione di “Mimosa non è un fiore”, storia di cadute nel fango e di rinascite

In un tempo pieno di rumore e pieno di parole il silenzio della solitudine può apparire come un tesoro da custodire, una zattera in mezzo al mare, un’oasi sull’orizzonte. Eppure può essere sufficiente cambiare prospettiva per capire che il mare non è poi così profondo o che non è tutta sabbia lì intorno. Una piccola lezione che diventa romanzo dentro Mimosa non è un fiore (Edizioni La Gru, 108 pagg, 12 euro), il terzo libro di Carlo Banchieri, livornese, 41 anni, di mestiere portuale e di scrittura fluente. Banchieri prende il più recente e doloroso disastro che ha ferito il cuore della sua città – l’alluvione del 2017, 8 morti, la colpa di nessuno, i soliti processi lentissimi – e quasi ne ribalta il significato: da portatrice di morte e distruzione e a crocevia di amori e affetti, intorno ai quali si innesta un percorso di rinascita. Nel libro resta tutto il carico di sofferenza che la catastrofe naturale ha portato, ma è come se spostasse l’obiettivo su piccole grandi storie che si incrociano sullo sfondo del disastro.

La Mimosa del titolo è una signora ormai matura, aveva una libreria che ha chiuso, i libri tutti incasinati in un garage, ha un padre che non c’è più da chissà quanto e però le torna sempre in mente, non ha parenti, non ha amici, quelli che le rivolgono la parola ricevono solo folate di vento freddo, pare abbia timore di tutto ciò che sta fuori il suo metro quadro. “Non le piaceva star sola, ma preferiva vivere così, semplicemente perché non riusciva a vivere diversamente” la descrive Banchieri. “Con il passare del tempo cominciava a sentirsi come una pianta grassa, in perenne apnea dietro a un involucro molle, mai del tutto sufficiente a se stesse, sotto centinaia di spine”. Il romanzo fa scoprire via via gli altri personaggi: c’è Guya, cresciuta in orfanotrofio e ragazza madre di Tessa. C’è Cristian, un portuale che tra rizze e salmastro sembra dipingere con la mente un quadro macchiaiolo: “Un lavoro pesante, antico. Per lui interamente parte di una poesia. Per lui tutto parte di Livorno”.

Banchieri dissemina indizi come se fosse un thriller e quindi bisogna fare attenzione a rivelare troppo per non anticipare lo scioglimento finale, a tratti commovente, quando il rapporto nato per caso tra Mimosa (una quasi settantenne indurita dalla vita) e Guya (che di mestiere pulisce le scale dei palazzi per dare da mangiare alla figlia) diventa un’occasione che entrambe non avevano nemmeno mai accettato di sognare. La prima quasi per volontà di chiudersi nel proprio buco, la seconda perché in tutta la vita aveva imparato più a dare che a ricevere.

Il romanzo ha un doppio valore. Da una parte l’abilità dell’autore nient’affatto scontata e anzi piuttosto rara di rifinire in pagina la psicologia dei personaggi. In questo caso il coefficiente di difficoltà è più alto perché Banchieri per la quasi totalità delle 108 pagine parla di donne e dal punto di vista delle donne e esce indenne da questa piccola sfida. Dall’altra parte, accanto a una trama che scivola veloce, alcune descrizioni (di stati d’animo o di ambienti esterni) hanno tonalità che tendono più alla poesia che non al romanzo. Tutto questo affida la storia a un velo di delicatezza che, un po’ come nello sviluppo del romanzo, trasforma l’apparente fragilità in vibrante energia.

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La video-intervista all’autore: “Quando ho ricominciato a scrivere? Quando mi sono ritrovato lontano da Livorno” (di Emilia Trevisani)

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