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Rugby Treviso, la prima giusto novant’anni fa: «La città lo amò subito»

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Rugby Treviso, la prima giusto novant’anni fa: «La città lo amò subito»

Novant’anni fa, a Treviso, si è giocato il primo incontro ufficiale di rugby. Correva il primo febbraio 1933, sul terreno di Santa Maria del Rovere (la piazza d’armi). Pubblico delle grandi occasioni, autorità al completo ed organizzazioni fasciste attivissime per il debutto in grande spolvero del Guf Treviso (gioventù universitaria fascista), nel quadro della promozione intensissima che il regime dava allo sport che doveva forgiare i giovani italiani (celandone le origini anglosassoni).

Non andò benissimo, perché il rugby Padova, la seconda squadra creata in Italia, la migliore del Triveneto, vinse 17-3. Ma per Treviso fu una sorta di battesimo di mischia, un ingresso in pompa magna nel movimento veneto ed italiano.

C’era il pioniere Livio Zava, che l’anno prima, da studente universitario di medicina al Bo, aveva conosciuto il pallone ovale e le regole, ed aveva fondato la società di Treviso, raggruppando gli amici. Un percorso che farà il suo collega studente Davide “Dino” Lanzoni, fondatore del Rovigo nel 1935. E il tabellino di quel match fa già impressione: l’estremo di Treviso, allora alla francese arriére, si chiama Benetton: segno del destino. Come il fatto che nel Padova, in mediana, fosse annunciato Bortolami, poi non titolare. Una storia infinita, sempre uguale e sempre diversa...

E tornando ai bianconeri del Guf trevigiano - sì, erano quelli i primi colori, non era ancora arrivato in biancoceleste che i vari Casellato & Co. avrebbero provato in tutti i modi a difendere contestando il biancoverde introdotto dallo sponsor Benetton – fanno impressione i vari Bazzo, Novello, Carniato, cognomi che hanno fatto la storia del rugby a Treviso. Quella maglia sarà visibile a Monigo nell’ala museo che Bobo Bortoletto ha allestito per lo stadio del futuro.

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L’affresco di quel pomeriggio di febbraio emerge a tutto tondo dalla ricerche di Elvis Lucchese, già giornalista e blogger, studioso delle origini del rugby veneto e d oggi attivo come ricercatore nel progetto Fir 100, referente dell’archivio storico della Fir.

«È certamente la prima partita che a Treviso ha i crismi dell’ufficialità, anche se forse il Guf Treviso, fra ’32 e ’ 33, aveva giocato partite di rodaggio con Mestre e Padova», spiega Lucchese, «ed è l’evento che il regime spinge per certificare il lancio del rugby a Treviso. Dalle cronache dell’epoca si coglie proprio la caratteristica del grande evento, la mobilitazione dell’apparato dell’associazionismo fascista, la partecipazione delle massime autorità, a cominciare dal prefetto per finire al segretario del partito e ai livelli delle organizzazioni giovanili ed universitarie. E si coglierà ben presto il favore con cui la città accolse questo nuovo sport, che diventerà ben presto affetto profondo e diffuso. Subito dopo il Guf diventerà Gil, Gioventù Italia del Littorio, negli anni antecedenti il conflitto».

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Curiosità: domina il francese, con i placquage, ma ci sono già tre quarti (staccato), mediana ed avanti. «Al pubblico veniva distribuito un foglietto con le regole a scopo di divulgazione e di chiarimento del gioco che piaceva al regime, ma anche gli altoparlanti contribuivano a spiegare i meccanismi del gioco», precisa Lucchese. Gli antesignani dei corposi programmi e degli speaker.

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I tre punti, la prima meta, anzi l’essai, saranno firmati da Carniato. «La figura di Zava non sembra stagliarsi allora come quella del padre fondatore, ma non c’è dubbio che lui sia veramente l’uomo cui il rugby trevigiano, e non solo quello del capoluogo, deve tutto». Medico, entrato al Ca’ Foncello dopo la laurea, Zava sarà direttore dell’ospedale sfollato a Casier per i bombardamenti nella seconda guerra mondiale, ai Sacramentini.

«Da un alto la sua figura istituzionale segna un marchio del rugby trevigiano, capace di essere al tempo stesso giocato dall’élite, non dimentichiamo che a quell’epoca in Italia studiavano all’università meno di 60 mila giovani, e contestualmente dalla classi più povere della popolazione», aggiunge Lucchese.

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Un tratto che continuerà per il dopoguerra, e che in città vedrà davvero il rugby trevigiano tagliare il capoluogo nelle sue espressioni sociali. Così come di Zava vanno ricordate l’infaticabile vocazione a diffondere il rugby e una vena goliardica che assorbita al Bo gli resterà dentro in tutta la sua carriera di medico, fin agli ultimi anni di attività al San.Camillo. Gli annali tramandano di memorabili sere sul Montello nel dopoguerra, con i rugbisti che rilanciarono lo sport dopo il conflitto, ma anche di altrettanto leggendarie liti con i titolari dei locali per la condotta poco protocollare degli atleti. Così come di schietti scambi di vedute con le suore attive al San Camillo. E non stupisce che sia stato anche lui fra gli scissionisti del XIII, prima della ricomposizione.

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«Una figura che si staglia, al di là della creazione della società di Treviso nel ’32, per l’enorme spinta che diede nello sviluppo del rugby in tutta la provincia» continua Lucchese, «nel dopoguerra si attivò a Lancenigo, Silea, Paese, Casale, sempre e dovunque in prima fila». Uno che lo affiancò, prima e dopo la guerra, fu Francis Bandiera, che non compare nel match del 1933, ma che arrivò subito dopo con Malatesta ed altri giovani della città, affascinati dalla nuova disciplina.

Le prima pagina di una storia straordinaria, che 90 anni dopo vede in campo i Leoni del Benetton, la fortezza di Monigo tempio internazionale, le sfide ai colossi d’Europa e Sudafrica. E l’amore mai sazio della città per quel pallone che rimbalza così male....

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