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Sara Cardin: «La determinazione è la mia forza, sono una che non molla mai»

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Photo: courtesy of Adidas
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Nulla è impossibile per chi è nato con uno spirito guerriero. Individua un obiettivo e lo insegue fino a raggiungerlo, incontra un ostacolo e trova la determinazione per superarlo, avverte una debolezza e attinge all’innata forza interiore. Chi è dotato di questa preziosa “scintilla”, che brilla di fronte alle sfide più impossibili, ha sempre un’inarrestabile marcia in più. Nella vita, come nello sport.

Campionessa mondiale nella specialità del kumite nel 2014 e quattro volte campionessa europea per la categoria di peso fino ai 55 kg, Sara Cardin è la più vincente Karateka della storia italiana, con un totale di 1 oro e 1 argento mondiale, 3 ori, 3 argenti e 1 bronzo europei e 20 titoli Italiani. Un’atleta «guerriera» nel senso più puro e nobile del termine, la cui storia personale di impegno, determinazione e successo sportivo è stata scelta da Adidas, insieme ad altre, per la nuova campagna Impossible Is Nothing, volta a dimostrare come l’ottimismo e l’azione possano spesso plasmare positivamente una vita.
Nata a Conegliano 34 anni fa, Sara Cardin entra a far parte dell’Esercito Italiano dal 2014: «È stata la svolta della mia vita, perché sono riuscita a fare della passione la mia professione. Ho la sicurezza di un gruppo militare che mi segue a 360 gradi e sono orgogliosa di portare avanti la bandiera italiana grazie a loro», dice. Di recente, ha raccontato il suo lato umano di campionessa nel libro Combatti! Ho scelto di vincere, pubblicato nel 2019. Quando la sentiamo telefonicamente per questa intervista, si sta allenando per le imminenti sfide internazionali, la più importante delle quali sarà dal 23 luglio all’8 agosto a Tokyo per i Giochi della XXXII Olimpiade, dove il Karate farà il suo esordio per la prima volta nella storia, quale nuova disciplina olimpica.

Quando è iniziato tutto?
«A 7 anni ero un classico “maschiaccio”: tagliavo la legna con il taglierino per costruirmi archi, frecce e insieme al nonno guardavo i film di Karate Kid. Fu lui a mettere le lenzuola di mia nonna in un sacco e ad appenderlo a un albero per farmi allenare. Finché un giorno disse a mia madre: “Ma perché non la iscriviamo a una scuola di Karate?” È stato un amore a prima vista e una palestra importantissima: si impara già da piccoli l’autocontrollo, il rispetto, la gestione dell’aggressività».

Le arti marziali sono una disciplina sportiva con caratteristiche speciali rispetto alle altre?
«Credo proprio di sì. È uno sport da combattimento, ma non prevede il KO. Il Karate riporta alla tradizione della vincita a voti: occorre portare i propri calci al massimo livello ma non fare male, dimostrare la propria superiorità nel combattimento e al tempo stesso rispettare chi si ha davanti. Ci si confronta, ma l’avversario non è consierato un nemico. Ci sono poi autocontrollo e un profondo rispetto, celebrato attraverso il saluto verso i compagni e il maestro, una figura diversa rispetto a quella dell’allenatore. Non da ultimo, il Karate è una disciplina molto formativa, soprattutto se praticata da piccoli: mettendo a confronto un bambino e una bambina, lei impara a sviluppare la forza e lui a rispettare lei».

C’è un aspetto importante o un elemento della pratica del karate che viene comunemente ignorato?
«Più che altro ci sono diversi luoghi comuni. Ad esempio, il fatto che alcuni genitori considerino il Karate uno sport maschile e pensino: “Se faccio fare Karate a mia figlia chissà come diventerà!“. Ebbene, personalmente, dopo anni di pratica, io vado in giro tantissimo con décolletées e abitini. Non la considero una disciplina né maschile né femminile: al contrario, è potente ed elegante, non per nulla ho coniato l’hashtag #eleganceofpower. C’è poi il mito della “rottura della tavoletta”, una falsa credenza generata dai film… Sfugge spesso, invece, la complessità di uno sport dove coesistono molte tecniche che prevedono anche calci e pugni, ma nella cui pratica bisogna imparare a essere velocissimi senza fare male. In linea genrale, si tratta di uno sport completo, dove ci sono sia la dimensione tattica che quella emotiva».

Quanto conta la preparazione mentale, oltre a quella fisica, in questa disciplina?
«Ad alti livelli è proprio la preparazione mentale ciò che fa la differenza. In gara abbiamo due minuti di combattimento per dare il massimo: ci si allena anni e anni per imparare a risolvere una situazione in pochissimo tempo. Diciamo che l’obiettivo è raggiungere il giusto compromesso tra pensiero tattico e istintività e, in questo senso, l’equilibrio mentale è fondamentale; abbiamo un mental coach che ci aiuta proprio in questo, perché prima ancora che atleti siamo esseri umani, con ciò che può comportare a livello emotivo, e avere un buon equilibrio personale diventa fondamentale anche nello sport. Bisogna prepararsi, lavorare sodo, imparare a gestire lo stress e allenarsi al coraggio per entrare in gara con la giusta emotività e concentrazione».

Qual è stata la cosa più difficile da superare quando ha intrapreso il percorso agonistico?
«Ce ne sono tante di cose difficili quando si punta a livelli alti! Ma alla fine non ti pesano. Un momento critico, per me, è stato quando ho dovuto affrontare un problema legato a disturbi alimentari, durante l’adolescenza, verso i 16 anni. Appartenevo alla categoria dei 55 Kg, ma per un periodo mi hanno forzata a seguire la categoria dei 50 kg. All’inizio ce l’ho fatta, ma poi sono scesa troppo di peso, non riuscivo più a controllarmi, ho cominciato a soffrire di bulimia, non mi riconoscevo più. Tutti pensano che questa problematica faccia male solo fisicamente, in realtà è a livello mentale ed emotivo che crea più disagi: avevo sbalzi d’umore continui e mi sentivo in colpa con me stessa. Ma sono stata fortunata perché proprio il karate mi ha aiutata. Fin dai tempi in cui, da piccola, giravo con la spada di legno, dicevo che sarei voluta diventare campionessa del mondo. E in quel periodo, avendo perso il rapporto con il cibo, non riuscivo più a mettere in atto il mio potenziale. Questo mi ha fatto capire che stavo dimostrando la mia debolezza. E io dovevo vincere».

Ha un’abitudine particolare per recuperare la concentrazione prima di una gara importante?
«Non sono una di quelle che hanno un talismano in tasca. Ma c’è una cosa che ho sempre mantenuto nel tempo: l’abitudine – durante le gare più importanti – a non scaldarmi nelle aree di gruppo, insieme ad altre atlete. Ho sempre pensato che facendolo avrei rischiato di non riuscire a “sentire” Sara. Così ho iniziato a riscaldarmi nei posti più solitari, mi bastava trovare un punto dove ero soltanto io per sentire il respiro, il battito cardiaco, l’energia e questa abitudine è rimasta per tutta la mia carriera. Dopo, mi si può anche mettere nella gabbia dei leoni, ma prima devo trovare me stessa!».

Quando ha capito che il karate sarebbe stata la sua strada a livello professionale?
«Da piccola facevo delle gare di velocità e battevo i maschi: sentivo di avere il talento della volontà. La certezza mi è arrivata quando ho conquistato il primo titolo italiano. Avevo appena 14 anni e in quell’occasione ho preso anche la cintura nera. È lì che mi sono sentita per la prima volta “campionessa” ed è lì che è iniziato il mio percorso».

Quanto ha contato nella sua carriera il supporto della famiglia?
«Ho sempre ringraziato mio nonno per aver avuto l’intuizione di esortarmi a fare karate. Però un atleta può anche essere fortissimo, ma se non ha dei genitori che ogni giorno lo supportano, accompagnandolo avanti e indietro a gare e alleamenti, non può farcela. Tanto del successo dipende dal tempo che si riesce a dedicare a tutto questo percorso».

C’è stato un momento o un episodio nella sua carriera di grandi successi in cui si è scoraggiata, convinta che non ce la l’avrebbe fatta?
«Un atleta pensa centomila volte di voler mollare! Perché la fatica è tanta, per ogni medaglia che hai conquistato ce ne sono centinaia che hai perso e imparare a perdere non è mai facile, soprattutto per chi nasce vincente. Ma è un percorso formativo: nel corso della mia carriera mi sono rotta il setto nasale, una volta mi sono fratturata il ginocchio e quando ti ritrovi in un lettino per quasi 6 mesi, il pensiero di non farcela a riprendere ti viene. Ma poi capisci e reagisci: cadi dieci volte e ti rialzi undici».

Le è mai capitato di subire discriminazioni o pregiudizi?
«In prima persona non mi è mai capitato. Ma una cosa che, in generale, trovo molto fastidiosa è che quando una ragazza pratica sport da combattimento e sviluppa la muscolatura, il suo corpo viene considerato “meno femminile”, come se la presenza dei muscoli la rendessero meno bella. Da ragazzina ci ho sofferto perché a causa del mio spirito (e del mio fisico) da gerriera non mi ritrovavo con le mie coetanee, a volte ero percepita come “diversa”».

Cosa le ha insegnato la pratica del karate e in che modo la disciplina atletica ha influenzato la sua vita privata?
«Mi ha insegnato l’autocontrollo in tante situazioni, così come la capacità di confronto. E mi ha insegnato a gestire lo stress».

Oggi, guardando al suo passato e a tutto il percorso atletico compiuto fino a questo momento, quale pensa sia stato il suo vero punto di forza?
«La determinazione, il non mollare mai, l’indole combattiva che mi ha spinta a continuare così tanti anni. Vincere una volta è facile. Ma per continuare a restare al top nel tempo ci vuole tanta determinazione. Devi reinventarti, cambiare tattiche, provare cose nuove, senza poi dimenticare il tema della fatica, fondamentale da affrontare e saper gestire».

Quale sarà la prossima sfida?
«Mi è pesato fin da piccola di non poter sognare le Olimpiadi, per il fatto che il Karate non era fra gli sport previsti. Ma quest’anno la svolta: riuscirò a parteciparvi, peraltro a Tokyo, che è la madre patria della mia disciplina. Sarà la ciliegina sulla torta!».

 

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