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Sara Cardin: «Col karate ho scoperto me stessa»

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Sara Cardin: «Col karate ho scoperto me stessa»
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Sara Cardin: «Col karate ho scoperto me stessa»

Da piccolina si costruiva le spade di legno con il taglierino e correva intorno al tavolo della cucina gridando “campioni del mondo, campioni del mondo”. Ora che campionessa del mondo lo è, Sara Cardin punta un nuovo obiettivo, ma esplorato dai karateki della sua generazione: le Olimpiadi. Tokyo 2020 sarà la prima volta del karate ai Giochi e Sara si presenterà da atleta dell’Esercito, che l’ha tesserata nel 2014, e tra le favorite d’obbligo per la categoria -55 kg. Ne è passato di tempo da quando quella bambina bionda con gli occhi azzurri guardava Ralph Macchio dare la cera e togliere la cera sotto gli ordini del maestro Miyagi in Karate Kid, da quando per la prima volta, a sei anni, mise piede nella palestra di Ponte di Piave. Una strada lunga e faticosa, che Sara racconta nella sua autobiografia, Combatti!, scritta con Tiziana Pikler ed edita da Baldini+Castoldi, in uscita giovedì 24 ottobre. Un percorso costellato di paure e sfide che ha saputo affrontare e che l’hanno resa campionessa e donna.

Perché proprio il karate?
«Da piccola ero un po’ un maschiaccio. Mia mamma per Carnevale mi vestiva da principessa, io preferivo il costume da cowboy o da Zorro. Provò a farmi danza ma io mi annoiavo. Con nonno giocavo con arco e frecce e guardavo i film di Karate Kid, così lui ha convinto mamma a farmi provare quello sport».

E ha trovato quello che cercava.
«Sì, era uno sport che mi permetteva di esprimere me stessa, estremamente energico, di velocità, mai noioso. Poi c’era il confronto con un avversario e io sono sempre stata un’agonista».

Del karate sappiamo che è uno sport di controllo, più di difesa che di attacco. È proprio così o è un po’ un mito?
«È la verità. Se posso spezzare una lancia in mio favore, io ho sempre avuto un’ottima difesa e penso che questa sia la prima cosa in qualsiasi arte da combattimento. Se hai la sicurezza di saperti difendere, poi puoi portare un attacco. È un meccanismo molto utile anche nello sviluppo di una ragazza, si acquisisce sempre più fiducia e consapevolezza in se stessi».

Qualche botta però l’avrà presa.
«Certo. Mi sono pure rotta il naso in allenamento, ma è stato l’unico vero infortunio legato a tecniche di karate. Il ginocchio me lo sono rotta facendo uno spostamento laterale da sola. Non possiamo farci del male in combattimento, se colpiamo troppo forte veniamo ammoniti».

Come si diventa la più forte del mondo?
«Non voglio essere una di quelle che dicono che è soltanto questione di tanto impegno. Una base di talento ci deve essere, è innegabile, ma non basta. È una scalata fatta di determinazione, sacrifici, resilienza. Bisogna sentire il fuoco dentro».

E imparare a superare le proprie debolezze.
«È vero, il coraggio va costruito, nessuno nasce già coraggioso di suo, tutti abbiamo delle paure».

Anche lei?
«Certo. I campioni forse sono proprio i primi ad aver paura, più ti esponi e ti metti in gioco più le paure aumentano. Da piccola avevo le crisi di panico prima delle gare, sono arrivata a fare una finale mondiale davanti a 18 mila spettatori e vincerla».

Come ci è riuscita?
«Affrontando una paura alla volta. Ne affronti una piccola, la superi, la volta dopo potrai affrontarne una più grande. E via così. È stato un percorso fatto da me e dalle persone che ho avuto accanto. I miei genitori, per esempio, non mi hanno mai detto “non lo fare se ti stressa troppo”, mi hanno sempre spronato ad affrontare le mie difficoltà. Così sono riuscita a crescere. Anche perché il karate è una cosa, ma la vita è molto peggio».

Qual è la sua gara più bella?
«Ne scelgo tre. Europei di Atene 2010 perché probabilmente è l’unica gara in cui sembrava fosse impossibile battermi, mi sentivo invincibile; Mondiali di Brema 2014, per la freddezza e la determinazione; Europei di Kocaeli del 2017, in cui ho fatto argento, ma con uno strappo al polpaccio destro di cinque giorni prima, sono stata costretta a combattere da mancina per controllare l’infortunio».

La sconfitta più brutta?
«Il Mondiale 2010».

Ma come, non ha vinto l’argento?
«Sì, ed è stata la mia prima medaglia, ma è stata una enorme delusione. Vincere il mondiale era il sogno della mia vita e mia mamma mi diceva: “Ce ne vuole prima di diventare campioni del mondo”. Arrivai in finale ed ebbi paura di vincere. Contro la giapponese il match terminò 0-0 tanto nei due minuti come nel supplementare. Alla fine i giudici scelsero lei come vincitrice. Fu terribile, dopo quel Mondiale volevo smettere».

Lei è un’atleta, ha un corpo che molte certamente le invidiano. Si è sempre piaciuta?
«Assolutamente no, e penso che il 90% delle donne risponderebbe così, siamo super autocritiche verso noi stesse e ci troviamo mille difetti. So di essere apprezzata dal punto di vista fisico, ora sto bene ma non è sempre stato così. All’inizio ho fatto molta fatica ad abituarmi a vedere un corpo muscoloso mentre a me piaceva l’ideale della modella filiforme».

Lei è sposata con il suo maestro, 20 anni più grande. La differenza d’età non è mai stata un peso?
«Fra di noi no, il problema era all’esterno. Per molto tempo abbiamo deciso di tenere nascosta la nostra relazione, , col senno di poi forse pure troppo a lungo, ma era difficile per parenti e amici capirla. Quando l’abbiamo detto insieme ai miei genitori è stata un po’ una liberazione».

Vi conoscete da 26 anni, state insieme da 15. Mai una crisi?
«Sì, ne abbiamo avuta una a fine 2010, ci siamo lasciati per un anno per degli equilibri tra di noi che non funzionavano, forse non parlavamo molto. Ma dopo un anno e mezzo siamo tornati insieme stando anche meglio di prima».

Nell’introduzione del libro lei scrive: “Ho imparato che è più facile difendersi da chi ci attacca, piuttosto che da chi ci abbraccia”.
«Sì, un attacco fisico, come un calcio o un pugno, è qualcosa di diretto, molto più semplice da parare rispetto ai colpi e contraccolpi emotivi che possono arrivare da una persona. Quando amiamo siamo molto più vulnerabili di quando combattiamo senza i sentimenti di mezzo».

Tokyo 2020 sarà la sua prima Olimpiade. Che effetto le fa?
«Per una vita il mio sogno è sempre stato vincere il Mondiale e dopo il 2014 per un momento ho pensato di smettere perché non avevo più obiettivi. Poi si è aperta la prospettiva olimpica, sul momento la vedevo lontana, ora è dietro l’angolo. Ci ho pensato e alla fine sono arrivata alla conclusione che nella mia carriera ho già vinto tutto, non ho più nulla da dimostrare e dimostrarmi, davanti a me ho già una torta e ora si tratta di provare a metterci la ciliegina».

Nessuna pressione?
«Ah, quelle ci sono e ci sono sempre state. Dal 2010 convivo con le pressioni. Ma se sono rimasta ai vertici è perché, pur con alti e bassi, sono stata sempre capace di gestirle».

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