I SIGNORI DEL CALCIO – Arthur Antunes Coimbra Zico: il fuoriclasse che suonava calcio
Ci sono calciatori che giocano.
Altri che vincono.
E poi ci sono quelli che creano musica, che fanno vibrare lo stadio con una nota soltanto, che non calpestano il prato ma lo accarezzano come fosse velluto.
Zico appartiene a questa categoria ristrettissima: quella degli eletti, dei poeti del pallone.
Quando entrava in campo, sembrava che il mondo smettesse per un attimo di respirare, in attesa della prossima magia.
L’anima di un 10 senza tempo
Nato a Rio de Janeiro il 3 marzo 1953, Arthur Antunes Coimbra — per tutti semplicemente Zico — cresce nel quartiere di Quintino.
È gracile, magrolino, ma ha qualcosa che gli altri non hanno: un piede destro che racconta storie.
Calciava come chi scrive una lettera d’amore: lenta nel pensiero, perfetta nella forma, inevitabile nel destino.
Le sue caratteristiche tecniche? Controllo orientato da manuale, dribbling breve e tagliente, lettura del gioco da regista illuminato, tiro in corsa feroce, punizioni come parabole divine, non calci di punizione.
Zico incarnava tutto ciò che un numero 10 dovrebbe essere: libertà, creatività, coraggio, bellezza.
Un soprannome curioso
Lo chiamavano “O Galinho de Quintino”, il Gallettino di Quintino.
Non perché fosse arrogante, né perché amasse pavoneggiarsi: tutt’altro.
Il soprannome nasceva dal contrasto più bello della sua storia:
quel ragazzo esile, quasi troppo leggero per il calcio dei grandi,
che però entrava in campo col petto in fuori,
la fierezza dei piccoli che non temono nessuno,
la grinta di chi viene dai campi polverosi e sa che ogni pallone è un’occasione da non sprecare.
A Quintino, il suo quartiere, dicevano che Zico era come quei galletti giovani che sembrano fragili,
ma quando parte la sfida non arretrano di un centimetro.
E così il soprannome rimase, affettuoso e popolare,
fuso per sempre al destino di un fuoriclasse che, pur crescendo,
non smise mai di portare con sé l’anima combattiva del piccolo gallo di Rio.
La leggenda del Flamengo
Con il Flamengo, dal 1971, Zico diventa il signore del Maracanã.
Il suo rapporto con la torcida rossonera è mistico, quasi religioso.
In dodici stagioni conquista:
6 Campionati Carioca
3 Campionati Brasiliani
1 Coppa Libertadores
1 Coppa Intercontinentale
368 gol in 489 partite
Ogni suo tocco sembrava trasportare una parte di Rio in campo: la sabbia, la musica, la ginga, la leggerezza del sambista che danza mentre tutti corrono.
Udine e il sogno italiano
Nel 1983 l’Udinese compie l’impossibile: porta Zico in Friuli.
Arriva come un semidio tropicale in una terra di nebbia e palloni pesanti.
Eppure, basta pochissimo per accendere la favola: il 5 agosto, contro il Real Madrid, segna e regala la vittoria.
L’11 settembre, all’esordio in Serie A, l’Udinese travolge il Genoa 5–0.
Zico segna due volte.
Due lampi.
Due dichiarazioni d’intenti.
La seconda stagione è frenata dagli infortuni, ma non scalfisce il rapporto d’amore con la città: Udine non ha mai dimenticato quel brasiliano che trasformava il calcio in pittura.
Un curioso aneddoto e la promessa mancata del portiere Sorrentino
C’è un episodio che riassume meglio di mille statistiche chi fosse Zico.
Prima di una partita contro il Catania, il portiere siciliano Roberto Sorrentino dichiarò pubblicamente di aver capito il segreto per neutralizzare le punizioni del brasiliano.
“Zico non mi segnerà”, disse.
Lo affermò convinto.
Forse troppo.
Zico non rispose.
Chinò appena il capo, come fanno i maestri quando ascoltano un allievo particolarmente audace.
In campo, la storia fu diversa: due punizioni fotocopia, due traiettorie gemelle, entrambe all’incrocio dei pali.
Sorrentino concluse la partita guardando la porta come se fosse diventata un altare.
Aveva scoperto che contro certi artisti le parole non bastano.
Non bastano mai.
Accadde così, come in una fiaba: il maestro che insegna al mondo quanto pericoloso sia sfidare la bellezza.
Il ritorno al Flamengo e l’ultimo capitolo in Giappone
Tornato al Flamengo, continua a incantare: 77 presenze, 24 reti e ancora un titolo Carioca nel 1986.
Poi il viaggio lontano, ai Kashima Antlers, dove chiude la carriera nel 1994 e diventa padre spirituale del calcio giapponese.
La Seleção e i mondiali dell’illusione infranta
Con il Brasile debutta nel 1976 e segna 52 gol in 72 presenze.
Partecipa ai Mondiali del 1978, 1982 e 1986.
Quello dell’82 è il Mondiale del sogno: Sócrates, Falcão, Cerezo, Junior, Eder, Zico…
Una sinfonia interrotta dall’Italia.
Nel 1986 sbaglia un rigore contro la Francia, ma segna ai tiri dal dischetto.
Il destino, però, non aveva scelto lui per sollevare la Coppa.
Eppure, nessuno ricorda quei Mondiali per le delusioni:
si ricordano per la bellezza.
E Zico era bellezza pura.
L’allenatore che semina vittorie nel mondo
Dal 1999 guida il Kashima Antlers, poi la Nazionale giapponese, con cui vince la Coppa d’Asia 2004.
Arriva in Europa al Fenerbahçe (campionato + Supercoppa), poi al Bunyodkor (campionato + coppa), quindi al CSKA Mosca (Coppa e Supercoppa di Russia).
Allena Olympiakos, Flamengo, Iraq, Al Gharafa e infine il Goa.
Un cittadino del mondo, un ambasciatore del calcio.
Eredità
Nel 2004 entra nella FIFA 100.
Non poteva essere altrimenti.
Zico è stato — ed è ancora — un custode della poesia calcistica.
Uno che non ha mai giocato per vincere soltanto, ma per lasciare qualcosa al cuore della gente.
E in questo, pochissimi nella storia sono stati come lui.
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