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L’EDITORIALE – Conte e Vergara, la promessa sospesa del centrocampo azzurro

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di Vincenzo Letizia

Antonio Conte, lo stimiamo. E come non farlo? I suoi numeri parlano, i trofei pure. Ovunque sia passato ha lasciato tracce di disciplina, mentalità e rigore. Ma anche i migliori, ogni tanto, inciampano nella coerenza delle proprie idee. E il caso Vergara ne è un esempio lampante.

Durante il mercato estivo, Conte aveva tracciato la sua linea: niente rincorse, niente nomi tanto per fare. Disse – e lo fece intendere chiaramente – che la mediana del Napoli andava bene così. Nessuna urgenza di un altro centrocampista. Fiducia piena nel gruppo, e, in particolare, nel giovane Vergara.

Una scelta, quella, che piacque ai romantici del calcio: quelli che credono ancora nei ragazzi del vivaio, nelle promesse da coltivare, negli sguardi timidi che sanno di sogno. Fidarsi di un giovane significa investire, dargli spazio, farlo sentire parte del progetto. Ma fidarsi e poi dimenticare è come promettere il mare e lasciare il ragazzo sulla riva.

E così Vergara è rimasto lì, silenzioso in panchina. Nemmeno venti minuti contro il Lecce, neanche un quarto d’ora col Pisa, quando il risultato invitava a osare. Poi, la sorte – come spesso accade nel calcio – presenta il conto: un paio di infortuni, due centrocampisti fuori, e ti ritrovi costretto a schierare un ragazzo che non ha ancora imparato a muoversi nei tuoi meccanismi. Non per colpa sua, ma perché il tempo per imparare non gliel’hai dato tu.

Conte, che di giovani ne ha sempre gestiti pochi ma bene, dovrebbe ricordare che il campo non perdona le scelte mancate. È un’arte delicata, quella dell’equilibrio tra esperienza e freschezza. L’allenatore salentino sa meglio di chiunque che le stagioni si vincono anche con il coraggio di rischiare: con un volto nuovo, con una gamba diversa, con la fame di chi ha ancora tutto da dimostrare.

Non si tratta di bocciare, ma di riflettere. La gestione di un gruppo è anche psicologia: far sentire tutti utili, non solo i soliti dieci-undici. Vergara, oggi, è il simbolo di un’occasione mancata. E non tanto per lui, quanto per chi avrebbe potuto arricchire la propria squadra di una risorsa in più, temprata e pronta al bisogno.

Il Napoli di Conte ha una struttura solida, un’anima riconoscibile, ma l’allenatore non può dimenticare la lezione più antica del calcio: chi non semina in autunno, non raccoglie in primavera. Fidarsi dei giovani è nobile. Dimenticarli è un peccato. E Conte, che ama parlare di “gruppo”, stavolta ha dato l’impressione di pensarla più da generale che da maestro.

Perché un allenatore, alla fine, non è solo colui che vince, ma anche chi prepara chi verrà dopo. E a Napoli, dove il futuro ha sempre il colore azzurro dei sogni, certe scelte pesano più di un punto in classifica.

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