Quando il giornalismo diventa tifo: il caso Sky Sport e la deriva del racconto sportivo
di Vincenzo Letizia
Sta facendo discutere, e non poco, un video circolato in rete in cui alcuni giornalisti di Sky Sport esultano in modo plateale al gol dell’Inter, durante la vittoriosa trasferta del Bentegodi. Non una semplice reazione di simpatia sportiva, ma un’esultanza vera e propria, da curva organizzata, con grida, abbracci e toni da bar sport. Un frammento che, nel tempo di un clic, ha scatenato un’ondata di commenti indignati e di riflessioni sullo stato del giornalismo sportivo italiano.
Il problema non è la passione – anzi, chi parla di calcio deve conoscerla e sentirla. Il punto è che la passione, se non governata da professionalità e misura, può travolgere i confini etici di chi dovrebbe essere narratore, non protagonista. Il giornalismo sportivo, per sua natura, vive di emozioni, ma non può permettersi di trasformarsi in spettacolo. Un conto è raccontare la tensione di un gol decisivo, un altro è parteciparvi come un tifoso in curva.
Questo episodio rappresenta una crepa simbolica in un sistema mediatico sempre più orientato all’intrattenimento e sempre meno alla competenza. L’attenzione si sposta dalla notizia al modo in cui la notizia viene raccontata. L’obiettivo non è più spiegare la partita, ma diventare virali. La cronaca, un tempo esercizio di equilibrio, oggi è performance. Il giornalista, che dovrebbe filtrare le emozioni del campo, ne diventa invece veicolo diretto, perdendo ogni distanza critica.
Eppure, quella distanza è il fondamento stesso della credibilità. Quando lo spettatore vede il conduttore o l’inviato esultare come un tifoso, smette di riconoscere in lui un riferimento neutro. Si crea una frattura di fiducia: come credere a un’analisi “obiettiva” di un rigore o di un’espulsione, se chi commenta ha appena urlato di gioia per la squadra in campo? Il rischio è che il pubblico, già abituato a un flusso costante di propaganda sportiva, perda definitivamente la distinzione tra informazione e intrattenimento.
Accanto agli eccessi di tifo, emerge un altro sintomo della stessa malattia: la spettacolarizzazione del giornalismo. Oggi spesso il criterio di scelta sembra più legato all’immagine che alla preparazione. Si confonde la competenza con la fotogenia, la presenza scenica con l’autorevolezza. In un mondo dove il microfono è più accessorio che strumento, la cronaca diventa passerella. Si privilegia chi “sta bene in video” rispetto a chi sa leggere una partita o porre domande scomode. Così, il giornalismo perde non solo la distanza dal campo, ma anche la profondità del pensiero.
Il fenomeno, d’altronde, non nasce oggi. Già da tempo il giornalismo sportivo televisivo ha imboccato la via del talk, dello show, dell’emozione a tutti i costi. Le trasmissioni del dopopartita sembrano più studi televisivi di varietà che redazioni giornalistiche. L’obiettività è un valore di retroguardia, l’analisi lucida cede il posto alla gestualità, alla frase ad effetto, alla battuta virale. E se la televisione premia chi “buca lo schermo”, è inevitabile che il giornalista si senta spinto a diventare personaggio.
Ma in questo caso si è superato un limite. Quando il tifo entra nel racconto, il racconto muore. Non è solo un errore di forma, ma un problema di sostanza. Si tradisce la missione originaria del giornalismo: informare, interpretare, dare strumenti per capire. E non è una questione di anti-interismo o di preferenze calcistiche: riguarda la responsabilità di chi ha un microfono e un pubblico.
Il video di Sky diventa così una metafora di un’epoca: quella in cui la professionalità è sacrificata sull’altare dell’emozione immediata. Dove contano più i clic del contenuto, più le reazioni del ragionamento. Dove il giornalista non è più colui che scava per spiegare, ma colui che partecipa per farsi vedere. È un mutamento culturale profondo, che investe non solo il calcio ma l’intero modo di raccontare lo sport.
C’è anche un effetto collaterale più sottile: il danno d’immagine per chi, dentro e fuori Sky, fa ancora giornalismo vero. Per ogni cronista che si lascia andare a un’esultanza in diretta, ce ne sono decine che lavorano con serietà, rispetto e rigore. Ma gli episodi come questo gettano ombre ingiuste su tutta la categoria, alimentando la percezione che il giornalista sportivo sia ormai un tifoso con microfono.
Forse è il momento di tornare alle origini. Ricordare che il giornalismo, anche quello sportivo, nasce per raccontare la realtà, non per interpretarla come in un copione. Il calcio è già di per sé teatro, emozione, partecipazione popolare. Non ha bisogno che chi lo racconta si trasformi in attore o in una cubista. Ha bisogno, piuttosto, di voci capaci di restituirne la complessità, la tecnica, la bellezza e persino le contraddizioni.
Il rispetto per il pubblico passa anche da questo: dalla capacità di non scambiare la propria passione per privilegio. Si può amare il calcio senza urlare, si può raccontare un gol senza perdere compostezza, si può essere parte della storia sportiva restando giornalisti, non tifosi.
Il video di Sky è, dunque, un campanello d’allarme. Non solo per l’emittente, che dovrà interrogarsi su regole e limiti, ma per l’intera categoria. Perché quando chi racconta si confonde con chi tifa, non si perde solo credibilità: si perde cultura. E senza cultura del racconto, anche lo sport rischia di ridursi a rumore di fondo, a un perpetuo applauso da tribuna.
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