Napoli, dov’è finita la fame? L’atteggiamento preoccupa più del risultato: così si spengono le grandi squadre
di [Vincenzo Letizia]
Si può perdere, certo. Capita e capiterà ancora, soprattutto in una stagione lunga e logorante come questa. Ma ciò che lascia perplessi non è tanto la sconfitta in sé, quanto la “tranquillità” con cui Conte e la squadra sembrano averla accettata.
Niente rabbia, nessun dispiacere visibile, nessuno di quei segnali che fanno intuire un gruppo ferito ma vivo. Solo espressioni serene, quasi rassegnate, come se cadere a Torino fosse una normalità ormai metabolizzata. Ed è proprio questa assenza di reazione emotiva che preoccupa più del risultato tecnico.
Perché si può anche sbagliare la partita, ma non si può accettarla con indifferenza.
Il calcio, soprattutto a certi livelli, è fatto di tensione, orgoglio, fame. E se questi elementi si spengono, il rischio è quello di trascinarsi senza convinzione.
C’è poi la questione delle scelte: rinunciare con leggerezza a titolari “un po’ stanchi”, sacrificandoli sull’altare di una Champions League prestigiosa, ma oggi oggettivamente utopica, appare una mossa discutibile. Continuare su questa linea — a forza di rotazioni e calcoli — potrebbe costare caro, in termini di punti e di identità.
Ancora una volta Conte conferma il suo paradosso: straordinario quando può concentrare tutte le energie su un unico obiettivo, ma in evidente difficoltà quando deve gestire più fronti contemporaneamente. Il suo calcio, intenso e maniacale, fatica a respirare nel caos delle tre competizioni.
Si può perdere, sì. Ma poi bisogna reagire, arrabbiarsi, pretendere di più.
Perché la differenza tra una squadra viva e una che si spegne lentamente non la fanno le sconfitte, ma il modo in cui sceglie di rialzarsi.
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