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È la festa dei bolognesi e del Bologna Fc, che il calcio italiano (con la i minuscola) non ha sentito arrivare. Spiaze

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Il Bologna FC non l’avete sentito arrivare. “Spiaze“. Il capotreno del Frecciarossa della Coppa Italia si chiama Dan Ndoye e spacca Milan-Bologna al 53esimo all’Olimpico di Roma con un destro in mischia dal coefficiente altissimo. Pensate, uno svizzero che gioca a calcio, segna e pure vince. Nei salotti di Sky, con o senza giacca, non più di cinque sei anni fa avrebbero riso a crepapelle. E il Bologna Calcio di svizzeri ne fa giocare titolari, da un paio d’anni, perfino due. L’altro è Remo Freuler, una specie di piovra che arpiona anche le mosche. La festa del Bologna però è già iniziata da giorni, forse da mesi, magari da anni. Sarà che un esodo di 30mila tifosi a Roma sa di biblico ed epocale (“non l’avevate mica Prevost”, recita lo striscione premio della serata trionfale). Sarà che prima o poi a forza di scuotere l’albero della cuccagna del calcio italiano qualche trofeo cade anche ai margini dell’impero (prima o poi si vince anche con la Juve, un po’ di pazienza).

L’ha spiegato un paio di giorni fa Vincenzo Italiano all’interista Mattarella nel presentare il valore della finale di Roma per il BFC: “Ha iniziato Sinisa, poi l’anno scorso la Champions, e quest’anno la finale di Coppa Italia. E questo perché dietro ci sono Joey Saputo e una società seria”. L’assenza di un cognome sa di lapsus freudiano. La festa insomma ha un gran cerimoniere. E si chiama Vincenzo Italiano. Uno che a Firenze chiamano ancora l’iraniano. Un allenatore “integralista” che fa giocare la squadra in pressing uomo su uomo sulla trequarti avversaria a dieci minuti dalla fine, senza mai rinnegare un credo più da giocatore di flipper che da raffinato esteta. Catenaccio non portarmi mai via. Italiano ha giocato una finale tatticamente spregiudicata proprio come ha voluto lui. L’ha vinta nella perseveranza e nella follia. Braccia aperte e mani alle orecchie alla Hulk Hogan con accento agrigentino, per qualche istante (secondi? minuti?) sotto la Curva Andrea Costa in trasferta romana, sfida aperta a “chi è lo re?”.

È la festa del “sindaco” Lorenzo Lollo De Silvestri capitano di mille battaglie, calzetto abbassato alla Omar Sivori. È la festa di Riccardo Orsolini che una ne fa, mandando in visibilio la Madonna di San Luca, e cento ne cicca, sorridente e felice, facendo scappare Spalletti. È la festa di Sam Beukema, un’ammonizione in 35 partite di campionato, che esce dal campo fasciato e sanguinante come un’iconografia da soldato sul Piave nel ’15-’18. È la festa dell’imberbe Estanis Pedrola che sale le scalette del podio della Coppa Italia, guarda il trofeo lì a due passi e i labiali riportano un candido “mamma mia”. È la festa di chi aveva i nonni, i babbi e le mamme piccoline, allo stadio nel 1964 nel giorno del settimo scudetto. È la festa che dura da qualche anno.

Da quando Sinisa ha spiegato ai sazi e disperati tifosi rossoblù che anche a Bologna si poteva sognare non solo per qualche domenica. È una festa di un popolo calcistico sobrio, di una città che non contesta nemmeno chi ti tradisce, ti rinnega, ti svende. È la festa del “Cobra” Giovanni Sartori che ha toppato clamorosamente un acquisto cruciale (il puntero spuntato Dallinga) ma che ha azzeccato l’acquisto al supermarket dell’Attak per tenere coeso un gruppo. È la festa di Cesare Cremonini che pare una Sabrina Ferilli pronta allo spogliarello. È la festa dei magazzinieri con borse e borsine in campo a baciare la coppa. È la festa di Gianni Morandi che prima del via a chi gli chiede se Italiano rimarrà risponde: “Non porta bene andare via da Bologna”. Altro cognome mancante. Lapsus freudiano numero due. E motocicletta che girella attorno alla Continassa. Chissà se ha fatto festa anche lui? Un pezzo del trionfo, una fettina piccola piccola, è anche suo. Anche se a Bologna si fatica a ricordarne il nome.

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