Francisqueta
io l’ho vista che cantava nei giorni brevi di un’idea…
Artù. Secco, breve e dolcissimo. Quando alzava lo sguardo era per parlarti, per dirti qualcosa, nell’unico linguaggio di cui era capace, quello degli occhi.
Facevi per mettergli il guinzaglio e lui si buttava per terra per ricevere le coccole. Se avevi fretta non importava, dovevi solo rassegnarti ad arrivar tardi a qualunque appuntamento, perché lui non se lo faceva mettere se prima non ricambiavi l’affetto che quello sguardo ti trasmetteva.
Francesca l’aveva trovato tra gli alberi, in un bosco fatto di cespugli sgangherati e rami spezzati. Sgangherati come era stata la sua vita, spezzati come anni di attese e di speranze. Veniva dall’est, e per me poco importava se fosse quell’est slavo che avevo sognato nei miei viaggi letterari o nei mie mille libri sfogliati sui treni, oppure quell’est cantabrico che va a sconfinare verso il País Vasco, dall’odore intenso di salsedine e di vento che scompiglia i capelli alla gente di mare.
Per me fu da subito Francisqueta, per quella esse primordiale e roca con cui pronunciava parole difficili di cui simulava, sorridendo, conoscer il significato.
Lei diceva tutto senza dire, parlava col sorriso, come fanno solo i fanciulli, e sorridendo ingenua ti spiegava le cose più difficili.
Non aveva altri sogni che vivere, cantando canzoni inventate e vagheggiando di un futuro senza meta.
Ci incontrammo per caso… comprimaria di una compagnia di attori di strada, un po’ menestrelli un po’ nomadi. Saltimbanchi e giullari, scacchisti e lestofanti all’occasione. Lei recitava, almeno così le avevan fatto credere, in un ruolo mezzo comico mezzo serio, nessuno lo avrebbe saputo definire, tanto che il pubblico sorrideva ai suoi monologhi sobri e si inteneriva alle sue boutade divertenti. Non le importava, guardava oltre, fiera e forte, al vento coi capelli di sabbia e gli occhi scuri. Fu comunque non lontano dal Caucaso, non quello tra il Caspio e il mar d’Azov, ma quello tra Cicagna e l’appennino ligure. Lì si fermarono i carrozzoni di quella sbandata compagnia di artisti senza confine, e dall’ultima roulotte, la numero 38, parcheggiata vicino al ponte, scese Francisqueta, gli occhi color di mandorla e le mani lunghe da pianista. Artù abbaiava felice e la coda faceva il resto.
Il suo cognome non l’ho mai saputo, forse russo, forse iberico, come la sua età. Lei diceva di esser grande, d’aver vissuto… poi la guardavi e vedevi solo una fanciulla… candida, ingenua, timida.
Non la rividi più, i saltimbachi partirono, la roulotte numero 38, che di tutte quattro al massimo saran state, pure. Rimase l’indomani il prato solcato ove avevan sostato, e un foglietto, tra i ciuffi d’erba strappati, con le mosse, in un linguaggio dell’est, di una vecchia partita, e dietro scritto: “Mi perrito se llama Artù… quisiera que se quedara contigo… adiós, Francisqueta”
Confesso… non son mai riuscito a mettergli il guinzaglio, lo accarezzo e ho nel cuore lei…