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Finali di Scacchi: quando la tecnica è la chiave del successo

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Cosa succede quando in una partita a scacchi Re e pedoni diventano protagonisti? Quando ogni mossa può decidere la partita? Benvenuti nel finale, la fase più tecnica e strategica degli scacchi, dove anche un piccolo vantaggio può trasformarsi in vittoria.
Non ci credete? Provate a dare scacco matto con Re, Alfiere e Cavallo contro il solo Re. Non è affatto semplice riuscirci nelle 50 mosse regolamentari prima che sia dichiarata la patta e a volte anche i giocatori più esperti fanno fatica a coordinare i movimenti dei pezzi fino alla fine.
Iniziamo a chiarire una prima questione: quando possiamo dire che siamo entrati in un finale? Ebbene, secondo il famoso maestro e teorico Ludek Pachman occorrono tre elementi chiave per varcare la fatidica soglia: 1) Ruolo attivo del Re che esce allo scoperto per essere centralizzato, 2) Promozione dei pedoni come scopo primario per la vittoria 3) Rilevanza della strategia rispetto alla tattica, nel senso che la pianificazione del gioco e la visione globale giocano un ruolo predominante.
Lo studio dei finali ha radici antiche. Nel 1497, lo spagnolo Lucena compilò uno dei primi trattati sui finali, un’opera preziosa che gettò le basi per l’analisi strategica di questa fase cruciale del gioco. Si narra che Lucena, appassionato studioso di scacchi, avesse dedicato anni alla raccolta e all’analisi di posizioni complesse, creando un manuale che divenne un punto di riferimento per i giocatori dell’epoca.
Nel 1561, lo spagnolo Rodrigo Lopez de Segura, meglio noto come Ruy Lopez, famoso soprattutto per i suoi studi sull’apertura che porta il suo nome, pubblicò un testo sugli scacchi che includeva un centinaio di posizioni sui finali. Uomo di chiesa e confessore del Re Filippo II, applicò il suo acuto ingegno scacchistico offrendo ai suoi contemporanei una guida preziosa per affrontare le complessità di questa fase del gioco.
All’italiano Gioacchino Greco, molto famoso nel ‘600, si devono importanti studi sui finali, ma fu il francese Philidor che nel 1749 pubblicò un celebre libro sul gioco degli scacchi che conteneva importanti studi su numerosi finali. Anche il sacerdote e professore di diritto Lorenzo Ponziani fu autore nella seconda metà del ‘700 di interessanti ricerche sui finali. Molti pregevoli studi sono attribuiti nel ‘600 all’opera dell’italiano Alessandro Salvio e nel ‘700 al lavoro di Philip Stamma.
Da allora è stato un continuo proliferare di raccolte di studi e composizioni scacchistiche. Ricordiamo alcune pietre miliari: il libro di Horwitz e Kling pubblicato nel 1851 a Londra, poi quello di A. Troitsky e naturalmente il contributo del grande Grigoriev nel secolo scorso, soprattutto nel campo dei finali di pedone. Di Yuri Averbakh e delle sue fondamentali opere sui finali parleremo tra non molto.
Capita spesso tra dilettanti che le partite si concludano molto prima del finale, magari già dopo qualche svarione nella fase di apertura, ma più saliamo di livello, più la conoscenza dei finali diventa determinante. Un forte giocatore sa qual è il momento di semplificare, cioè liquidare la posizione per entrare in un finale superiore da vincere con pazienza, precisione e metodo. Ciò che in gergo scacchistico si chiama tecnica.
Di immense capacità tecniche erano dotati i più forti campioni della storia, da Capablanca ad Alekine, da Botvinnik a Fischer, da Karpov a Kasparov. Ed anche oggi è stupefacente ammirare come il numero uno al mondo, il norvegese Magnus Carlsen, riesca a conquistare una vittoria nel finale partendo da un minimo vantaggio posizionale, spesso manovrando con pazienza fino a quando l’avversario, in ristrettezze di tempo oppure sfinito dopo una lunga battaglia, non commette qualche fatale imprecisione.
Prendiamo ad esempio una partita blitz di Carlsen. In apertura, gioca in modo apparentemente tranquillo, quasi dimesso, semplifica la posizione nel mediogioco per poi trasformarsi in una macchina implacabile nel finale.
Quelli che a noi sembrano finali equilibrati, per Carlsen non lo sono affatto in quanto egli riesce a cogliere intuitivamente sottili sfumature: un alfiere superiore al cavallo, una migliore struttura pedonale, una maggioranza sul lato di donna, una torre o il Re più attivi.
L’ex campione del mondo sa dove posizionare i pedoni e i pezzi nel finale, li manovra come un pianista accarezza i tasti del pianoforte, gioca come se avesse sempre in mente una posizione da raggiungere, un vantaggio da conseguire.
Il finale è la fase della partita in cui prevale l’armonia, la collaborazione tra i (pochi) pezzi rimasti, dove il calcolo concreto delle varianti vale fino a un certo punto perché occorre soprattutto saper manovrare per migliorare pian piano la posizione.
Nel finale può accadere di tutto: basta un’imprecisione o una svista per buttare all’aria il paziente lavoro di ore sulla scacchiera e si può passare facilmente dalla vittoria alla patta o finanche alla più atroce delle sconfitte. Se non ci credete, osservate questo video e fermatevi sul primo fotogramma.
Il Nero ha una donna di vantaggio e la vittoria sembra questione di poche mosse. Eppure è in zeitnot ed è costretto a muovere rapidamente. L’avversario è un ragazzino adolescente dall’aspetto bonario che però ha escogitato un piano insidioso, forse la sua ultima chance. Egli ha una donna in f4 e tre pedoni avanzati, ma l’avversario ha già promosso e ha due donne sulla scacchiera in a1 ed h1. Dopo lo scacco Df4-f6+ egli lascia in presa l’unica donna rimastagli. Un errore clamoroso o un trucco diabolico? Scopriamolo soffermandoci sulla posizione iniziale:

Va detto che il finale di partita è la parte teorica che i dilettanti studiano meno perché non solo appare piuttosto noiosa rispetto alle meraviglie degli attacchi contro il Re alla Michail Tal o alle fini manovre in apertura o in mediogioco, ma anche perché c’è tanto da studiare e non ci sono molti testi in giro in grado di spiegare con senso pratico e capacità didattiche l’ostico argomento.
Quando da ragazzo giocavo a livello agonistico, cercavo di imparare i finali seguendo le partite commentate o leggendo qualche articolo sulle riviste allora in voga. Paradossalmente, quando ho smesso di giocare a tavolino ho cercato di colmare le mie lacune in materia acquistando qualche libro. E così, ho leggiucchiato, senza troppo entusiasmo e senza ricavarne gran costrutto, la “Guida pratica ai finali” di Beliavskij e Mikhalchisin (libro interessante, ma per nulla sistematico e basato su partite storiche commentate) il “Test sui finali” di Speelman e Livshitz e la sezione sui finali del manuale di Pachman “Apertura, mediogioco e finale nel gioco degli scacchi”.
In commercio oggi esistono anche libri completi ed esaustivi sui finali come il “Manuale” di Dvoretsky, un “mattone” di oltre 500 pagine che tuttavia non ho mai avuto il coraggio di acquistare, consapevole che avrebbe fatto la fine dei precedenti volumi, in bella mostra nella mia vasta collezione di libri scacchistici.
Tuttavia, una decina di anni fa, da semplice appassionato, acquistai un manualetto scritto da Yuri Averbakh di cui conoscevo la fama di famoso giocatore, compositore di studi e grande esperto in materia. Fui attratto dal titolo interessante, “Cosa bisogna sapere sui finali. I finali essenziali per tutti i giocatori” e (lo ammetto) anche dal prezzo accessibile rispetto ai libroni ai quali ho accennato in precedenza. Stavo cercando un agile manuale (il testo supera di poco le 100 pagine) che riuscisse a spiegare, senza riportare una serie lunghissima di mosse, le manovre essenziali e le regole basilari dei principali finali.
Averbakh distingue anzitutto i finali “teorici” da tutti gli altri. I primi, conosciuti da tempo immemorabile, si concludono con il matto al Re avversario e vengono studiati dai principianti per comprendere i movimenti dei pezzi e il loro effettivo valore. Gli altri, molto più teorizzati, hanno quale scopo l’avanzamento dei pedoni e la loro promozione in modo da poter raggiungere l’obiettivo ultimo del gioco e cioè lo scacco matto.
Avendo abbandonato da tanto tempo gli scacchi agonistici, ovviamente non ho studiato a fondo questo breve manuale, ma l’ho sfogliato con interesse osservando i numerosi diagrammi e cercando di comprendere i principi generali che disciplinano la teoria dei finali. E devo dire che quest’opera, pur nella sua incompletezza e schematicità, riesce pienamente nel suo intento.


Averbakh ci spiega, ad esempio, perché nei finali di torre è più importante l’attività dei pezzi rispetto al vantaggio di un pedone, illustra come valorizzare un pedone passato e lontano, come sfruttare il vantaggio dell’Alfiere “buono” o come valorizzare in certe situazioni la superiorità dell’Alfiere “dominante” sul Cavallo e così via.
Lo studio pratico dei finali dimostra che è facilissimo commettere errori anche gravi (sì, anche i G.M. sbagliano più spesso di quanto si creda) e che non esistono finali facili da vincere se chi difende ha esperienza e una buona conoscenza pratica della materia. Un forte maestro potrà anche cadere in posizione inferiore nel centro di partita o subire un attacco insidioso contro un giocatore più debole, ma se riesce a difendersi con attenzione sarà in grado nel finale di partita di pareggiare o di prevalere sull’avversario meno esperto grazie alla sua tecnica e alla superiore visione strategica.

Per comprendere l’enorme complessità dei finali di partita è sufficiente studiare con attenzione la storica sfida tra l’allora campione del Mondo Michail Botvinnik, all’epoca cinquantunenne, e l’astro nascente Bobby Fischer, appena diciannovenne, giocata alle Olimpiadi di Varna nel 1962 e minuziosamente commentata dal campione americano nelle “60 partite da ricordare”, il suo libro più famoso.
In questo video trovate l’intera partita:

Era il primo confronto negli anni della “guerra fredda” tra il “Patriarca” sovietico e il genio statunitense e i riflettori erano tutti puntati su di loro. Una sconfitta di Botvinnik avrebbe rappresentato un vero smacco per la squadra sovietica, all’epoca dominante.
Nel corso della drammatica partita, Fischer giocò meglio e aveva in mano la vittoria (lo confermano anche i motori di oggi) ma commise delle imprecisioni. Una volta aggiornata la partita alla quarantacinquesima mossa, Botvinnik, assieme al suo team stellare, riuscì nel corso delle analisi notturne a trovare, grazie a un’intuizione di Evfim Geller, la difficile strada per pattare il complicato finale di torri. Fischer cercò nel suo libro di demolire le analisi di Botvinnik per sostenere che, giocando le mosse corrette, sarebbe riuscito a vincere, ma devo dire che alla fine della sua lunghissima disamina (che termina con 64…Bb3+ e poi 67…Ra2) i motori gli danno torto (caso raro perché Fischer era molto accurato nell’analizzare le posizioni più critiche) in quanto non trovano alcun modo per forzare la vittoria, con una “serie di scacchi che devono condurre il Nero o al matto o a un decisivo guadagno di materiale”, come sosteneva Fischer.
Se ci fidiamo dei motori di oggi (fortissimi anche nei finali rispetto a una ventina di anni fa) dobbiamo ammettere che il grande Bobby si era fatto prendere dalla foga antisovietica e aveva affermato apoditticamente la sua tesi senza dimostrarla. Semplicemente, non voleva darla vinta a Botvinnik, il quale aveva affermato in pubblico che, dopo la sospensione della partita, il risultato di parità era inevitabile (“Nichia”). In conclusione, entrambi i contendenti furono d’accordo che avevano commesso troppi errori, davvero tanti per due campioni di tale classe, a dimostrazione del fatto che nei finali è facilissimo sbagliare strada.
Ricordiamoci poi che anche nei finali più critici ci sono incredibili risorse a disposizione della parte più debole se riesce a mantenere la calma e a non mollare troppo presto.
Nel caso che segue, per certi versi esilarante, che ho scovato curiosando su YouTube, vediamo il grande Magnus Carlsen, nel corso del campionato del mondo a squadre del 2024, alle prese con un ragazzino sconosciuto (Nurassyl Primbetov ELO 1900, ma tenace e per nulla intimorito dalla statura scacchistica del suo avversario) il quale cerca di farlo cadere, nel corso di un finale per lui senza speranze, in una disperata trappola che forse gli era riuscita parecchie volte giocando con i suoi coetanei.
Notate alla fine le espressioni di Carlsen e del suo compagno di squadra, Ian Nepomniachtchi, sorpresi e ammirati dalla “faccia tosta” sfoggiata dal ragazzo contro il N° 1 al mondo. Noterete che al minuto 9,50 Nurassyl offre una Torre avvelenata al campione e lo guarda di sottecchi mentre Carlsen imperturbabile non se ne cura minimamente…

Vorrei concludere con un ricordo di Yuri Averbakh, leggendario scacchista e didatta, il quale, con i suoi studi approfonditi sui finali, ci ha lasciato una preziosa eredità.
Secondo Averbakh giocare bene il finale significa rendere attive al massimo le proprie forze in campo e stabilire fra di esse la migliore collaborazione possibile. I finali sono stati studiati a fondo e la loro conoscenza è determinante. Non basta in questa fase del gioco, secondo Averbakh, avere talento e fantasia, ma occorre conoscere i piani di gioco che portano alla vittoria o alla patta. E una buona tecnica nello sfruttamento del vantaggio è il vero segno distintivo del forte giocatore.
Yuri Averbakh è stato un grande scacchista, teorico, allenatore, arbitro, scrittore e dirigente della FIDE. È morto ultracentenario nel maggio del 2022.Nel suo libro c’è una nota biografica in cui egli ci racconta gli inizi incerti come giocatore, il suo ultimo posto al campionato assoluto di Mosca del 1939 dove, appena diciassettenne, preso dall’emozione (“persi la testa”, ammette), terminò ultimo collezionando 7 sconfitte di fila. Ma egli seppe assorbire le dure batoste e non mollò.
Averbakh era preso tra due fuochi, l’amore per gli scacchi e gli studi di ingegneria. Cercò di barcamenarsi tra i due impegni fino a quando, alla fine degli anni ’40, giunto innanzi a un bivio, dopo aver raggiunto il titolo di Maestro e aver ottenuto nel contempo un importante incarico professionale, scelse, per nostra fortuna, di dedicarsi a tempo pieno agli scacchi. Conseguì nel giro di pochi anni il titolo di grande maestro, partecipò a importanti tornei internazionali con ottimi risultati e si dedicò allo studio approfondito dei finali. Allievo del grande Grigoriev (famoso per i suoi studi artistici che tutti conosciamo) mise su un team di studiosi e pubblicò delle opere che ancora oggi possono considerarsi delle pietre miliari nello studio dei finali.
Vorrei riportare alcune sue considerazioni che mi hanno molto colpito e che ci fanno capire la sua grande passione scacchistica. Scrive Averbakh: “Quando Grigoriev spiegava i suoi studi di pedone, muovendo i pezzi sulla scacchiera murale con le sue sottili e artistiche dita, io sentivo, più che capivo, la grande profondità e bellezza degli scacchi, osservando come questi piccoli pezzi di legno rispecchiassero il pensiero spirituale umano, e come, al pari di veri attori, inscenassero spettacoli meravigliosi, capaci di toccare la parte più sensibile dell’animo umano. Era la percezione degli scacchi come Arte che mi conquistò completamente.”
Infine, vorrei mostrare un esempio concreto che, meglio di ogni spiegazione, illustra la difficoltà di gestire un finale (apparentemente semplice) anche ad altissimo livello.
Sono di fronte, in un importante recente torneo rapid, il grande Magnus Carlsen (a mio avviso il più grande finalista della storia scacchistica) e Shakhriyar Mamedyarov (Super G.M. over 2700 che in passato ha raggiunto i 2820 punti ELO). Ebbene, dopo un mediogioco abbastanza tranquillo i due contendenti finiscono in un finale di torri (R, T e due pedoni contro R, T e pedone) che sembra destinato alla patta (il pedone “f”, dicono i manuali, nei finali di Torre raramente porta alla vittoria). Eppure basta un attimo di distrazione…

Il finale vero e proprio inizia attorno al minuto 8 e diventa palpitante nell’ultima fase di gioco. Chissà quante volte Mamedyarov avrà studiato questo finale di Torre eppure, invece di tenere la Torre Nera in modo da poter dare gli scacchi laterali al Re Bianco e così pattare facilmente, la porta sulla colonna “h” consentendo alla Torre avversaria e al Re di agire in sincrono e attuare la manovra finale che porta alla promozione.
L’espressione del viso di Mamedyarov quando si rende conto che i conti non tornano è molto significativa.
Per chi fosse interessato alle curiosità scacchistiche dei finali, ricordo anche questo interessante articolo sulla soluzione del cosiddetto enigma di Duchamp scritto da Fabio Andrea Tomba.
A proposito di Duchamp, genio dell’arte moderna e degli scacchi, per chi volesse approfondire la storia e le vicende di questo straordinario personaggio, ho scritto anch’io tempo fa un articoletto che trovate qui.
Sempre sul nostro blog.

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