La nebbiolina di Petrosian
Arriviamo tardi. Ormai è già scuro e non conosco la strada, mi accompagna però Lucia e lei è sempre sorridente. Entrambi programmiamo a scacchi e giochiamo in Java, o forse il contrario, ma questa è un’altra storia, senza importanza.
Costeggiamo la strada buia e tortuosa lungo il lago e si arriva su a Velletri che è quasi ora di cena… per tutti ma non per lo zio di Lucia, lui la sera non cena… legge, riflette, si corica presto. Una vita di lavoro lo ha reso avvezzo a questi usi e non è proprio il caso di cambiarli.
Il borgo è silenzioso, lasciamo la macchina davanti al porticato del municipio e ci inerpichiamo lesti su per il selciato che conduce a via Castello. Bussiamo con timidezza e, in cima alle scale, ci accoglie con cordialtà Cataldo, per gli amici e la gente di famiglia semplicemente Aldo.
Mi scuso per l’ora indelicata, il traffico nell’arrivare da Roma, le solite scuse insomma, ma, da signore d’altri tempi, l’anziano maestro mi tratta con familiarità come mi conoscesse da una vita; giusto si fa ripetere solo due volte il mio nome perché un leggero velo di ipoacusia o piuttosto la mia dislalia ostacola la conversazione. Credo più la seconda perché Lucia parla quasi a bassa voce e si intendono benissimo. Il Maestro Dell’Accio, come si usava una volta, ci tiene a condurci nella visita della casa, ci offre caffé e pastine, e poi ci invita nel suo studio, il laboratorio di un pensatore, ricco di dipinti di ogni foggia e colore, appesi alle pareti, colme di libri e scaffali, mentre due scacchiere fanno clandestinamente capolino in verticale da dietro la scrivania.
Aldo siede in mezzo e Lucia ed io rispettivamente su un divanetto e su una alta sedia in legno. Non so da dove iniziare, non è una vera intervista, non sono io un vero intervistatore, non è una improvvisata a un vecchio amico giacché Aldo tutto tranne che anziano appare, ma amico sì, nel cuore, solo come gli scacchisti con la passione profonda che sempre cova sotto la cenere lo sanno essere. Quel che so di lui non è tantissimo: appena una serie di articoli sul Caffé Branca pubblicati tempo addietro nul nostro blog, e una rapida ancorché poco fruttuosa ricerca sui più inesplorati fondali della rete. Risultato? Trovo nei più malfamati database di Caracas giusto due partecipazioni ad ormai remoti campionati itakiani. Il primo, nel 1959 a Rimini, ed il secondo, con tutte le sue partite, otto anni più tardi, a Savona, nell’ennesima edizione vinta da Tatai nonostante un’inopinata e carambolesca sconfitta maturata per circostanze incredibili con Enrico Paoli, secondo classificato e distanziato di appena una lunghezza. Ma il Maestro Aldo mi corregge timidamente: sono ben cinque le finali della massima competizione nazionale da lui raggiunte, aggiungendo con rara e sincera modestia di non aver mai scalato le vette del podio. Aldo non è mai stato quel che si dice un vero professionista della scacchiera, prima gli studi universitari in chimica e poi un lavoro impegnativo nonché i tempi che non erano certo quelli di oggi, ne hanno impedito ogni possibile presa in considerazione.
Come ha iniziato? …la classica domanda in timidezza che si rivolge a ogni scacchista. E’ stato all’età di sei anni, in tempi di guerra, allorquando già trovare un libro non era impresa facile, figuriamoci se di scacchi. Eppure Aldo lo riceve in dono, è un’edizione usata del Salvioli, non la ristampa che non senza commozione ci mostra pescandola sotto la pila di ponderosi tomi rilegati come si usava un a volta, ma un’edizione ancora precedente che ha poi generosamente regalato, al pari di tanti suoi altri libri, ai vari appassionati del nostro gioco che ha supportato nel corso dei decenni nell’apprendere tecniche e strategie. C’era appunto il Salvioli e -aggiunge- ben poco altro a disposizione. E quel libro l’ha letto e riletto, un anno intero di approfondito e solitario studio “senza uscire neanche di casa”. I tornei erano pochissimi e i circoli non certo tanto più numerosi. In questi termini di indefesso impegno, continua a raccontarci Aldo, citando ora Riccardo (!) Réti, ora Alekhine, dal lui letto e riletto più volte fino ad impararne praticamente a memoria le partite più famose.
E il tedesco? Il tedesco l’ha imparato con gli scacchi. Perché alla Biblioteca Nazionale trova una collezione di partite di Adolf Anderssen, in tedesco appunto, e allora lui, poco più che fanciullo, cosa pensa di fare?!? Ne ricopia a matita minuziosamente tutte le pagine, investe i risparmi nell’acquisto di un dizionario di tedesco e inizia a tradurre partite, analisi e commenti. I risultati sono sotto gli occhi di tutti noi: il titolo di Maestro, conseguito quando questo ambìto riconoscimento non era probabilmente inflazionato come ai giorni nostri, una semifinale del campionato italiano vinta a Rovigo e, immagino io, chissà quanti altri prestigiosi tornei…
No, rettifica con pronta e sincera modestia l’anziano Maestro: “quelli non contano, mi sento forse di aggiungere alla lista solo un altro torneo, all’Eur”.
La signora Catterina, con due t, l’ha conosciuta a Santa Margherita, e mentre anche a Lucia si inumidiscono gli occhi al ricordo della cara zia che non c’è ormai più, Aldo mi racconta di come lei lo seguisse in giro per tutta la penisola, con commovente e rara pazienza, nei suoi innumerevoli pellegrinaggi, di torneo in torneo: San Benedetto del Tronto, Imperia, Caorle, di qua e di là, e lei silenziosa e gentile sempre dietro.
Lo zio Aldo minimizza con imbarazzo e modestia sui suoi successi, gli scontri con Mariotti, affrontato ben tre volte, lo stesso numero di incontri occorsi con Wagman, la patta con Porreca, le vittorie su Sandro Meo, Alvise Zichichi e altri maestri romani che io purtroppo conosco solo di fama e di nome. E mentre parliamo appunto di Meo, che definisce, con evidente affetto, “più forte di lui”, ancorché i numeri non lo dimostrino affatto, mi mostra su una scacchierina tascabile la celebre “spinta di Meo” allorquando il maestro romano sacrifica con fantasia un pedone centrale per bloccare una colonna e stroncare con successo ogni possibilità di controgioco all’avversario al fine poi di condurlo in una rete di matto. La conversazione si sposta poi sui maestri liguri con cui ha giocato: l’ingegner Grassi, Massimiliano Romi e Roberto Cosulich, e poi di come lo studio degli scacchi sia cambiato negli anni. All’epoca testi di scacchi quasi non ne esistevano, le riviste con la cronaca dei tornei disputati arrivavano dopo mesi dalla conclusione degli stessi e l’evoluzione della teoria era un processo lento e difficoltoso. La leggenda narra che Petrosian ammonisse chi si affacciava al gioco raccomandando caldamente di non imbarcarsi in posizioni tatticamente complicate giacché in quella pericolosa nebbiolina c’era davvero il rischio di perdersi e annegare facilmente.
Sulla falsariga del ragionamento ci illustra anche perché non amasse seguire i dettami degli altri, rispondendo per esempio con l’originalissima per l’epoca g6 all’apertura di Re. Insomma, rispetto ai tempi odierni di Carlsen e Gukesh -sottolinea Aldo- qualcosa è evidentemente cambiato, per fortuna in meglio specifica subito. Considerazione che espressa da un attempato signore il quale, dall’anno in cui è nato, quel lontano 1936 primo anno di guerra civile e XIV dell’era littoria, in questi nove decenni di acqua sotto i ponti scacchistici ne ha sicuramente vista passare, e non poca, fa davvero riflettere ogni odierno interlocutore.
Il Maestro Dell’Accio, alla vigilia delle ormai novanta primavere, adopera internet e WhatsApp con la disinvoltura di un adolescente, mantiene con Scid un archivio storico delle sue partite e, insomma, dà sicuramente dei punti a tanti di noi più giovani nonché ambiziosi woodpushers.
Si è fatta l’ora di rientrare, fuori pioviggina e per il suggestivo centro storico di Velletri non si scorge più anima viva. Lucia è giustamente impaziente di rientrare a Roma, dalle sue ragazze che per una sera ha dovuto lasciar da sole, e così seppur a malincuore ma si parte. Aldo mi saluta e mi abbraccia con calore, invitandomi a tornare presto a trovarlo per guardare insieme due libri in cirillico con gli studi più belli dei migliori compositori sovietici. “E’ stato il regalo di un amico medico prima che morisse…” Dalla parete di fronte sembra annuire beffardo il personaggio di Adriaen Browen mentre sorseggia l’amara pozione.
Arrivederci Maestro, dobbiamo proprio districarci tra la nebbiolina di Petrosian e bisogna che ora andiamo… ci rivediamo presto!