Rimpalli
Paolo era un anarchico sognatore.
Come tutti quelli dotati di una intelligenza viva non si piegava al conformismo delle idee e alle regole del buonismo borghese.
Come tutti quelli che hanno un animo sensibile guardava con tenerezza agli umili, a quelli che si ammucchiano al fondo della scala.
Scriveva le sue poesie, carezzando gli ultimi:
«Vecchia prostituta del lungo Dora mi prostro di fronte alle tue calze smagliate, alle mutande raffazzonate, agli occhi mal truccati: fard interiore a basso prezzo. Aspetta il successivo, di passaggio, lì per caso, e poi quello che viene dopo, il seguente. A piedi scalzi, col freddo, senza vestiti, con la pelle; ora il prossimo: io non vengo perché ti amo troppo».
Oltre che con le parole, lui ci teneva a dare segni tangibili del suo rifiuto di qualsiasi omologazione.
Così ogni tanto faceva qualcosa di originale; solo per sorprendere e provocare il giudizio comune, per staccarsi dalla massa e rivendicare la propria individualità. Niente di eclatante perché era un ragazzo buono, niente di violento o aggressivo perché era un ragazzo mite.
La sua volontà era semplicemente quella di rendere concreta e visibile la sua innocente anarchia, certificare a se stesso e al mondo il valore di ogni singolo uomo contro società e poteri che impongono autorità e massificano individui. Così si radeva il cranio, e ci scriveva sopra una poesia:
In fede io ti dico, magnifico rettore, che sono giovane, in fede ti dico che sono anarchico, in fede ti dico dove sono nato, che numero di telefono ho, dove abito,… insomma tutti i dati che ti occorrono. In fede, spero che tu mi abbia segnalato come sovversivo, che mi abbia schedato, che abbia lanciato occhi pieni di sgomento quando hai visto il mio cranio pelato. In fede so, dopo averti parlato senza cultura, che non capirai l’eremo su cui spira il vento ascetico del Nulla. Basta! È facile comprenderlo. In fede, magnifico rettore, non parlo più.
Si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, per dare uno sbocco concreto alla sua ansia di giustizia, e macinava esami.
Aveva scelto un nome d’arte per le sue produzioni poetiche: Francesco Paolo Pe. Anche sul frontespizio del copione di “Piazzetta” c’è scritto questo nome.
“Pe” era la prima sillaba del suo cognome, Pesante, e fin qui tutto chiaro. Ma era il seguito che non capivo: Colui che non può non essere. Colui che non può non essere? E che vuol dire.
Ma eravamo abituati alle stramberie di Paolo e soprattutto eravamo consapevoli che, essendo lui molto al di sopra del nostro livello culturale e cognitivo, non avremmo mai potuto capire fino in fondo tutto ciò che faceva o diceva.
Così anche quella misteriosa definizione, Colui che non può non essere, passò in Piazzetta distrattamente, senza che qualcuno gliene chiedesse il motivo, senza che qualcuno ne volesse approfondire le ragioni.
Fu lasciata sospesa, a galleggiare senza peso in mezzo a noi e venne presto dimenticata. Andava semplicemente ad aggiungersi al già cospicuo numero dei suoi atti originali, da archiviare come gli altri in fondo alle nostre vite, senza doverci stare troppo a pensare.
Quando decisi di farlo, ne rimasi sgomento.